Per come si erano messe le cose, occorre riconoscere che alla base della rielezione di Sergio Mattarella alla Presidenza della Repubblica vi sono ottime ragioni. Evitare l’ascesa al Colle di candidati che avrebbero travolto la residua legittimazione delle istituzioni repubblicane; impedire un ulteriore cedimento verso la deriva tecnocratica già da tempo in atto; scongiurare il rischio che il panico, prendendo il sopravvento, rendesse ingovernabile la situazione.
Ottime ragioni, dunque, che hanno tuttavia condotto a un pessimo risultato.

Pessimo per la Costituzione, anzitutto. Se, con Massimo Villone, non si può dire che la Costituzione sia stata violata, con Gaetano Azzariti si può tuttavia ritenere che è stata «riposta nel cassetto».

Con la rielezione del Presidente, a saltare è stato «il principio della temporaneità delle cariche politiche di vertice»: «il tratto che vale a distinguere le democrazie dalle monarchie, i poteri democratici da quelli assoluti». Con due casi (consecutivi) su tredici, la rielezione cessa di essere eccezione e si trasforma in regola. Entra a far parte del novero delle cose normali, diventa legittima aspettativa per i Presidenti che verranno: che dunque perdono, d’ora in poi, la presunzione di imparzialità e di garanzia che la carica presidenziale richiede, divenendo sempre sospettabili d’agire per interesse personale.

Pessimo per la politica, inoltre. E non certo perché il Parlamento non abbia saputo individuare rapidamente il o la Presidente da eleggere: il tempo preso per confrontarsi e discutere è, in queste occasioni, un tempo sempre ben speso. A condizione che ci si confronti e si discuta, però. Che si mettano in campo delle idee e, a seguire, delle candidature con esse dotate di una qualche coerenza. E, invece, abbiamo assistito a una girandola di nomi gettati nella mischia senza una logica, come se eleggere un tecnico o un politico, un cattolico o un laico, un esponente dei partiti o della società civile, una figura proveniente dal passato o dal presente fosse esattamente la stessa cosa. Almeno, la destra ha provato a eleggere un Presidente dichiaratamente di destra. La sinistra nemmeno quello: l’obiettivo del segretario del Pd era – per sue stesse dichiarazioni – eleggere alla più elevata carica politica qualcuno di cui s’ignorano le opinioni politiche …

Pessimo, infine, per le istituzioni. Non si può far finta che Mattarella non avesse escluso in ogni modo l’opportunità costituzionale di un suo secondo mandato. Fino a che punto la retorica del sacrificio per la Patria può, adesso, valere a compensare la campagna contro la rielezione di Mattarella condotta dallo stesso Mattarella? Gli allarmi da lui ripetutamente lanciati nelle scorse settimane erano fondati o infondati? Delle due l’una: o erano fondati, e allora il Parlamento dovrebbe spiegare perché non li ha presi in considerazione; o erano infondati, e allora il Presidente dovrebbe spiegare perché li ha lanciati. Ma è chiaro, da quanto sopra argomentato, che fondati lo erano, eccome.

Due rischi si aprono, adesso, come prioritari.
Il primo riguarda il rilancio delle mai sopite pulsioni presidenzialiste che continuano ad agitare il dibattito politico. Se siamo giunti a questo punto è anche perché da troppo tempo ci si illude di poter dare soluzioni giuridiche (formali) ai problemi politici (sostanziali) che ci affliggono. Purtroppo, sono pulsioni trasversali, che saldano Giorgia Meloni e Matteo Renzi al neoeletto Presidente della Corte costituzionale (che, non a caso, ha prontamente escluso che un’eventuale elezione diretta del Capo dello Stato potrebbe fare a meno di una revisione in senso semipresidenzialista della forma di governo).

Il secondo è che si apra una discussione sulla durata del nuovo mandato di Mattarella. Il semplice fatto che se ne discuta indebolisce la terzietà del Capo dello Stato, perché il momento delle eventuali dimissioni anticipate può condizionare in modo decisivo la scelta del suo successore. È anzitutto nell’interesse del Presidente allontanare da sé questo sospetto. Può farlo fin da subito, dichiarando formalmente, nel discorso di reinvestitura innanzi alle Camere riunite, che rimarrà al proprio posto sino alla scadenza dei sette anni previsti dalla Costituzione.