Uno spettacolo che sembra fatto apposta per Marchionne e per il ministro Poletti, e per tutte le chiacchiere spese a difesa del Jobs act e contro i diritti «eccessivi» dei lavoratori. Un argomento che si potrebbe pensare «noioso» a teatro, o comunque fuori luogo, e che invece scopre una presa molto forte sul pubblico e sulla sua attenzione. È successo così anche al teatro Storchi dove 7 minuti ha concluso la sua stagione – ma riprenderà nella prossima.

 

 

Quelli del titolo sono la quota di tempo cui viene chiesto alle lavoratrici di rinunciare da parte dei «nuovi soci stranieri» di una industria che è stata lì lì per chiudere. Era successo in Francia due anni fa, in una manifattura tessile, poi salvata dall’arrivo di capitale fresco che aveva permesso la ripresa della produzione senza licenziamenti né altre misure cruente sull’occupazione. Tranne una, avanzata appunto dai nuovi soci stranieri, tramite una semplice letterina consegnata al termine di una estenuante trattativa. Le operaie avrebbero dovuto rinunciare a sette dei quindici minuti giornalieri a disposizione per andare al bagno, riprender fiato, usare il distributore di bibite e caffè: una sciocchezza, rispetto al pericolo reale della perdita del lavoro.

 

 

Lo pensano anche la maggior parte delle delegate dei reparti, anzi tutte, meno una: proprio colei che era stata inviata dalle altre alla trattativa, come loro portavoce. E nella discussione, animata e a tratti violenta, su questo rifiuto, consiste lo spettacolo, che in un’ora e mezza fa sfilare sotto i nostri occhi le infinite zone grigie che si annidano nei rapporti tra padronato e dipendenti. Ma anche le necessità e i sentimenti, le debolezze e le priorità. Per qualcuna emergenziali come quelle legate al permesso di soggiorno, per altre di desideri «piccolo borghesi« che vengono allo scoperto, per altre ancora il fantasma brutale di finire, come tante loro amiche e colleghe di altre industrie in crisi, letteralmente in mezzo a una strada.

 

 

La «portavoce» difende con ragionata passione la propria posizione, sapendo che quella «sorridente» proposta amichevole («in fondo sono solo sette minuti», nulla rispetto alla sicurezza del posto) può trasformarsi in un cavallo di Troia che porterebbe ineluttabilmente alla cancellazione di molti altri diritti. La sua fermezza porta qualcuna delle altre a intravedere dietro la sua scelta addirittura una forma di «complicità» con la direzione. Mentre con il buonsenso di lei e la difesa dei diritti, anche l’arrendevole unanimismo delle altre si sgretola, fino al calar del sipario su un possibile rovesciamento di giudizio.

 

 

Sono storie che ormai tutti conosciamo, ma che sul palcoscenico prendono, rispetto alla tv o ai giornali, la fisicità delle undici attrici, con un pathos e una reattività che a momenti danno davvero i brividi. Senza «nostalgia», ma perché in quello spaccato femminile ciascuno può sentire il diritto e il dovere di schierarsi, prima ancora di pensare al proprio possibile coinvolgimento. Il testo di Stefano Massini conferma il grande spirito documentale dell’autore, che anche in questo caso ha spulciato e digerito tutti gli atti della vertenza. Mentre la regia di Alessandro Gassman (memore forse della sua miglior realizzazione, La parola ai giurati), tende a trasformare la storia in una indagine processuale. La strepitosa forza scenica sta tutta nelle attrici, che attorno alla bravura e alla razionalità di Ottavia Piccolo, la portavoce, realizza un campionario ben rappresentativo di pulsioni e paure, grettezze e generosità di donne di diversa generazione, tutte ugualmente intense nel comunicare al pubblico la propria complessità.