A rigore un numero non è una parola. O forse è una parola particolare, bisogna pur pronunciare il nome di un numero per significarlo… Ma certi numeri si caricano di significati che vanno ben al di là dell’indicazione quantitativa che una cifra esprime.

Da qualche giorno i media ridondano di rievocazioni del crollo del muro di Berlino, avvenuto 25 anni fa, nel 1989. In genere ci si chiede se oggi predomina il pessimismo o l’ottimismo, rispetto alle speranze suscitate da quell’evento largamente imprevisto. Ne ha parlato su questo giornale sabato scorso, come sempre con grande sensibilità e acuta ironia, Luciana Castellina. Appoggio, per quel che vale, senza riserve la sua proposta di dar vita a un «partito dei nonni», non per insegnare ai giovani che cosa debbano fare, ma per «uscire dal mutismo» che almeno due generazioni hanno conservato sul bene e sul male vissuto nell’epoca che quel 9 novembre dell’Ottantanove sembra aver definitivamente chiuso. Anche se tanti spettri generati in quella storia continuano a vagabondare, reclamano di essere finalmente riconosciuti, forse per poter tornare a riposare in pace.

Una reazione non pessimista, se non proprio ottimista, me l’ha provocata la lettura del discorso tenuto nell’occasione da Angela Merkel. Proprio lei, proprio perché è indicata – con molte ragioni – come la principale responsabile delle delusioni sul presente e sul futuro dell’Europa, afflitta dalla crisi e dal rigore dell’austerità.

Merkel ha giocato sui corsi e ricorsi di quella data – il 9 novembre – nella storia della Germania, evocandone le colpe più gravi: dal ruolo nella prima guerra mondiale, all’ascesa del nazismo, alla «notte dei cristalli» che nel 1938 segnò «l’inizio della Shoah».

Inoltre, definendo invece il 9 novembre del crollo del muro un giorno «di fortuna e gioia», ha riconosciuto che a quell’esito portarono non solo l’Occidente e i movimenti dissidenti come Charta 77 e Solidarnosc, ma alcune scelte coraggiose compiute nel campo del «socialismo reale». In particolare quelle di Gorbaciov per la perestrojka, e del premier riformatore ungherese Miklos Nèmeth, che smantellò le barriere di frontiera con l’Austria.

Insomma, un discorso che pur concludendo retoricamente sulla fiducia che il «sogno della libertà» possa sempre avverarsi, sembra consapevole della responsabilità enorme di cui è carica la nuova potenza egemonica tedesca. Nel momento in cui alla perdurante crisi economica si aggiunge il rischio di una nuova «guerra fredda» con la Russia di Putin.

Non ci si può certo limitare a ben sperare sulle intenzioni della cancelliera. Ma l’azione politica e culturale per affermare un’altra idea di Europa non può rimuovere una più seria elaborazione di che cosa ha significato, soprattutto a sinistra, quell’evento.

Ricordo molto bene il miscuglio drammatico di speranza, di volontà di cambiare e di liberarsi di un passato ingombrante, di ansia profonda e di malinconia, che accompagnò la decisione di Achille Occhetto, e di chi lo seguì dopo la Bolognina. Le ambiguità di quella «svolta» è un po’ come se non fossero mai state veramente sciolte.

Non ho potuto fare a meno di paragonare la «coperta di Linus» che secondo Renzi rappresenta per certa sinistra l’articolo 18, a quell’«orsacchiotto di peluche» evocato da Fabio Mussi contro chi rimaneva attaccato al nome del vecchio Pci.

Il cambiamento, per me, era e resta necessario. Ma se si vuole gestire fruttuosamente una transizione bisogna trattare con molta maggiore cura gli «oggetti transizionali» ai quali siamo tutti più o meno consapevolmente, e non infondatamente legati.