La rivoluzione può attendere. Al Fabbricone di Prato l’attesa si protrae per alcuni minuti. Un incipit assordante che sembra non voler finire mai. Uno stop premonitore o solo una provocazione da agitprop? Però l’interrogativo finale aleggia: chi farà scattare la scintilla? Elvira Frosini, Daniele Timpano e Marco Cavalcoli la chiamano Ottantanove e provano a spiegarlo. Soprattutto ai giovani, i giovanissimi, quelli del terzo millennio, anche se in sala di adolescenti non se ne vedono. Il teatro ha fallito, la rivoluzione pure. Due facce della stessa medaglia. Anche se, come dicono in coro i tre, «piano piano poco poco passo passo» forse qualche cambiamento è possibile. La moviola di Elvira, Daniele e Marco è frenetica, densa di saperi, enciclopedica, rabbiosa e avvincente, illuminante di retroscena (tipo non tutti sanno che la melodia della Marsigliese è d’origine italiana, del piemontese Giovanni Battista Viotti, o che dei Giacobini di Federico Zardi, lo sceneggiato del 1962 che fece epoca, nelle teche Rai non è rimasto un «ampex»), scatta nell’89 del 1700 della Rivoluzione francese e si blocca all’89 del 1900 della caduta dl Muro di Berlino, mentre stana nel suo zigzagante itinerario di tutto un po’, da Robespierre a Lenin fino alle albe del Sessantotto e ai postumi neoliberisti. C’è molta qualità attoriale, molto rodato fraseggio, molta feconda energia nel ricorrere questa diaspora di una prospettiva reale di cambiamento. Che tale resterà. Oltre la denuncia o il messaggio resta il senso di una sfibrante disillusione. Che fine hanno fatto liberté egalité fraternité? Sbiaditi come reperti di archeologia retorica, mummificati a festa, cipria e parrucca, trovano rifugio in un anonimo museo delle cere. In attesa di sciogliersi definitivamente?