Osvaldo Soriano era uno scrittore irrequieto, un narratore di sinistra in perenne definizione, perciò in continua evoluzione. È stato un grande scrittore e un grande giornalista. Si guardava sempre intorno e arricchiva i suoi articoli con particolari che rendevano leggeri i suoi resoconti. Una leggerezza che portò aria nuova al manifesto e tra i suoi lettori, appesantiti dagli articoli ideologici degli anni ‘70.
Quando Osvaldo Soriano mise piede per la prima volta al quinto piano di Via Tomacelli a Roma, dove aveva sede la redazione nazionale, era fine giugno degli ultimi anni ‘70, lo accompagnò una rifugiata argentina. Gli chiese se ogni tanto mandava qualche articolo riguardante la loro Argentina, come in quegli anni si chiedeva anche ai rifugiati politici sfuggiti alla dittatura di Pinochet in Cile, dopo il colpo di Stato del 1973. Quel giorno Soriano disse che si era stabilito a Bruxelles, dopo aver seguito per il quotidiano per cui lavorava un incontro di pugilato dell’argentino Monzon e che aveva deciso di non tornare in patria a seguito della brutta aria che si respirava in Argentina dopo il colpo di Stato del 1976 messo in atto dalla giunta militare guidata da Videla. In realtà al manifesto si seppe solo anni dopo che lo scrittore argentino figurava in due liste di persone che i golpisti argentini avevano deciso di eliminare fisicamente.

IL TIFOSO

L’inquietudine che accomunava Soriano e gli eretici del manifesto, portò a un incontro quasi naturale. Il suo era uno stile asciutto che piaceva ai lettori e il quotidiano contribuì così a farlo conoscere come scrittore in Italia, ben oltre quella ristretta cerchia di intellettuali che avevano letto Triste solitario y final, pubblicato in Argentina e poi tradotto in Italia. A volte, come esule, accennava ai patemi che soffriva per la sua squadra del cuore il San Lorenzo de Almegro, la stessa per la quale tifa Papa Francesco. Fu grande la sorpresa di Soriano, quando il manifesto gli propose di commentare le partite di calcio del campionato del mondo di Spagna 1982, che videro la vittoria dell’Italia guidata da uno strepitoso Paolo Rossi. Lo scrittore argentino, commentò anche i mondiali di Mexico ‘86 e quelli del 1990 che si svolsero in Italia. Fu in quell’occasione che si stabilì a Roma per un anno e seguì, come inviato del manifesto, le principali partite di quel campionato del mondo.

I RACCONTI

Nelle cronache di quei mondiali, Soriano unì il suo saper scrivere racconti alla capacità di cogliere tutto quanto accadeva dentro e fuori dal campo di gioco.
Il suo primo articolo comparve il 12 giugno, dopo l’esordio vittorioso dell’Italia con un gol di Totò Schillaci, questo l’incipit: «Una coppia di aciduli francesi fuggiva nella mezzanotte di sabato da Piazza del Popolo verso via Ripetta, immersa in una marea di automobili, motociclette e bandiere spiegate. Dicevano che la festa italiana era « un signe de barbarie». Un tipo che indossava una maglietta tricolore rispondeva «questo non è niente, vedrete quello che succederà dopo» e continuava a cantare montato sul cofano di una Peugeot decappottabile… Visto da uno straniero, lo sfondo rinascimentale sembrava troppo fragile per reggere tanto entusiasmo. A New York, a Rio a Seul tutto ciò che si rompe può essere riparato con mezza tonnellata di cemento, ma è forse così in Italia? Le gradinate del circo potranno contenere i gladiatori e i festanti?».
Seduto al tavolo che condivideva con Massimo De Feo alla redazione del manifesto, Soriano alternava articoli sui mondiali a racconti, che poi pubblicava sul quotidiano. Il 17 giugno uscì In due sulla Rolls, mentre il 24 giugno il manifesto pubblicò Finale nella terra del fuoco, titolo che insieme agli altri racconti finirà nella raccolta Pensare con i piedi (Einaudi) modificato rispetto all’originale in Finale con i rossi a Ushuaia. Il primo luglio il manifesto pubblica L’ultimo giorno di William Brett, racconto di Osvaldo Soriano che in Pensare con i piedi troviamo sotto il titolo di Gli ultimi giorni di William Brett Cassidy.

MARADONA

Il momento più interessante fu l’incontro con Diego Armando Maradona. Invitato da Gianni Minà a recarsi con lui a Trigoria, sede dell’Argentina di quei mondiali, per incontrare Maradona, Soriano non si fece pregare. Qualche giorno prima Maradona aveva guidato l’Argentina verso la vittoria sul Brasile, guadagnandosi l’accesso alla semifinale contro l’Italia. A mezzanotte quando i due varcarono la soglia di Trigoria, vennero accolti da Maradona, che indossava la maglia verdeoro come trofeo di guerra. L’inizio di quel pezzo che esce sul manifesto il 3 luglio del 1990 sotto il titolo Ho visto Maradona riporta: «Questi piedi che poggiano sullo stesso suolo dei miei sono i più costosi e i più ’virtuosi’ del mondo. Indossano sandali con calzini bianchi, e non sembra abbiano niente di particolare, ma quando toccano la palla il mondo ferma la sua corsa».
In realtà Maradona diffidava di Osvaldo Soriano: «Quando ci sono estranei in casa sorride male, come se diffidasse di loro, e deve avere i suoi motivi. La cosa migliore, mi sembra, è di non adularlo, dargli del ’lei’, trattarlo con il rispetto che si ha per una persona che, al di là del calcio, deve avere i suoi sogni inconfessabili, le sue smanie infantili ed un enorme desiderio di piacere per qualcosa di più che una partita di calcio. Man mano che parla il suo linguaggio si corrompe da «lunfardo»( il dialetto di Buenos Aires) al «tanguero» ( il dialetto dei «bassifondi»). Maradona è un eterno giocatore del Boca Juniors, che ha assunto le pene e le amarezze della Napoli povera e dimenticata. È un uomo assai intelligente, che sa dove mette i piedi. A volte esagera, come quasi tutti gli argentini, e questo gli vale il disprezzo e la rabbia degli altri.»

LA LEGGEREZZA

Osvaldo Soriano amava la vita notturna, le donne, il vino. In Italia è sempre stato considerato uno scrittore che si occupava di calcio e a certi intellettuali devoti alla sinistra tradizionale non piaceva. A coloro che hanno apprezzato Osvaldo Soriano mancano la leggerezza, la poesia e l’aria di novità contenuti nei suoi scritti.