Nell’isolamento del suo borgo natìo durante il secondo conflitto mondiale, Osvaldo Licini lavorò per tentare di recuperare il segreto primitivo del nostro significato del cosmo.
Non è stata una guerra, quella del covid, ma viene da pensare alle derive della nostra recente reclusione leggendo di questo intimo lavorio artistico ed esistenziale dentro una casa, nel cuore di quella che Licini, con il filosofo Ciliberti, ha chiamato «la regione delle Madri». Dove le Madri sono le Sibille, il femminile, le lune cifrate che sorgono da paesaggi sinuosi come corpi di donne, srotolati lungo le curve dei monti che a quelle fate fumantine danno il nome.
La regione delle Madri è anche il titolo della mostra allestita a Monte Vidon Corrado, in provincia di Fermo, con la cura impeccabile di Daniela Simoni, e che sarebbe dedicata, recita il sottotitolo, ai paesaggi di Osvaldo Licini; in effetti è riduttivo pensare a questa esposizione come a una ricognizione sui paesaggi figurativi.

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PIÙ CORRETTAMENTE è la storia documentata del passaggio dalle vedute/visioni delle marine e delle campagne ritratte da Licini all’astrattismo siderale e ritorno, in un percorso circolare che comincia dalle stanze del Centro Studi liciniano e prosegue in quelle della sua casa museo (restaurata e vivida, come se il pittore e la sua Nanny dovessero farvi ritorno dopo le ferie).
Si comincia coi ritratti di mare, quello sempre calmo e azzurro e fresco di colore dei versi di Sandro Penna. Dopo le marine, le vedute dei borghi, le campagne, i verdi e gli ocra che evocano la Francia, l’Aix en Provence di Cézanne e Van Gogh, ma che sono, eccome, le Marche, geometriche e antropizzate di Giacomelli, pur senza la presenza di uomini; le rare figure umane sono segni sghembi che si confondono con la natura (l’uomo è un verme che si contorce nella terra, una buona iena con una tendenza alla poesia), propaggini arboree.
Del resto a che servono gli uomini dove è il paesaggio a diventare umano, con case con la bocca e lune che, di tela in tela, diventano personaggi protagonisti della narrazione. C’è una stradina nel quadro intitolato Paesaggio verde cupo, tangente il volume di una casa: una falce bianca che rapisce lo spettatore perché è già presagio dell’impalcatura di corna falcate del Capro di Paesaggio fantastico, alter ego del pittore, che contempla il seno dei Sibillini come già il Viandante di Friedrich il mare di nebbia. Errante, erotico, eretico il caprone è il perfetto manifesto liciniano, che sembra uscito dalla Pietra lunare del romanzo di Tommaso Landolfi, l’emblema del primitivo fantastico.

LE SUE CORNA rabdomantiche sono sfoggiate anche dall’Uomo di neve, tornano nelle curve delle braccia di Angeli Ribelli, diavoli custodi di un cielo pieno di lune cui, nel percorso espositivo, si approda dopo aver lavorato per sottrazione e sintesi nei paesaggi, passando per gli schemi astratti di Ritmo, Bilico, tele vuote solcate da segni geometrici di equilibri impossibili, carichi di tensioni come cieli elettrici. Tensione che poi esplode nel tripudio di Angeli, nelle Amalassunte, negli amanti alla fine della guerra, ospitati nelle cantine di casa Licini dove l’artista, già sindaco di Monte Vidon Corrado per il Pci, teneva le sue riunioni; cantina ovvero le viscere della terra dove l’artista scende per compiere la sua ricerca e da cui, come la Madame Euridice dell’acronimo di Cocteau (e titolo di quadro liciniano MERDA Madame Eurydice reviendra des enfers), torna, carico di fiori fantastici.