Tadhg O’Sullivan è un montatore, sceneggiatore e regista irlandese, principalmente attivo sul fronte del documentario. Dopo molte partecipazioni di rilievo nel festival di mezzo mondo – dal Fid di Marsiglia al Doc Fortnight al Moma di New York – con i suoi primi due lungometraggi – Yximalloo, 2014 e The Great Wall, 2015 – porta alle Notti Veneziane – programma fuori concorso delle Giornate degli Autori a Venezia 77 – il suo terzo lungometraggio, To the Moon, ardito esperimento che intreccia il film d’archivio con il «cinema di poesia», la forma saggio con un concetto di montaggio in risonanza con le pratiche surrealiste, prende posizione contro il cinico gioco postmoderno e si getta, quasi nell’estasi delle forme di ejzenstejniana memoria, nella trance combinatoria tra ossessione e sublimazione.

Dove, come e quando ha avuto inizio il progetto di questo film e come hai fatto a svilupparlo?
Volevo fare un film che dimenticasse l’ironia, la critica culturale, e che esplorasse solo il mito e la bellezza in modo molto onesto, diretto. Una cosa molto radicale da fare.
E allora ho cominciato a pensare a quale fosse l’idea universale di bellezza, a ricapitolare tutta quanta la poesia dedicata nei secoli alla luna, mi son messo a guardare film, e mi sono accorto che la luna è stata come una tela che l’umanità ha usato per esplorare prima di tutto la bellezza; ma che poi la bellezza l’umanità l’ha usata per osservare l’amore, e la follia e l’arte e così ho capito a quante altre cose fosse connessa la luna.
Nello stesso modo in cui l’umanità ha usato la luna per proiettarci universi ulteriori, così ho pensato che potessi usarla io come tela cinematografica per esplorare alcune delle cose che m’interessavano di più.

Come è stata organizzata e come hai gestito la fase delle ricerche?
C’erano principalmente due livelli: il primo erano archivi e cineteche. Un altro livello è stato rivolgersi direttamente a singoli in quanto esperti del cinema di una singola nazione o di un’area geografica, linguistica, culturale. M’interessava l’arco temporale dalle origini del cinema fino agli anni Settanta. Sento che fino a quel momento c’è stata una diffusa onestà, una linearità nel fare film che dopo il 1970 è cambiata. È iniziato come un doppio livello di significato. Avrei preso del materiale con un significato originario per dargli un significato secondo: se il materiale avesse avuto già all’origine un secondo livello di significazione, il mio sarebbe stato il terzo e insomma sarebbe stato tutto troppo complicato.
Fin dall’inizio sapevo che la struttura avrebbe seguito in qualche modo il ciclo lunare, inanellando alcuni temi come fossero le fasi lunari: l’amore, la follia, gli stessi riferimenti che ho consegnato nelle mani dei ricercatori.
Alla fine mi son trovato a dover prendere decisioni molto dure su cosa tenere dentro e cosa lasciare fuori. Un esempio è il piccolo pezzo che ho preso dall’Orlando furioso prodotto dalla Rai nel 1975. Nonostante il costo dei diritti fosse proibitivo, dopo aver messo da parte l’idea di inserirlo, sono tornato sulla decisione e ho insistito per averlo.

Venendo allo stile del film, hai scelto di attraversare un genere molto in auge in questi anni – quello del film d’archivio – costruendo un ibrido piuttosto originale tra saggio e poesia, senza alcuna narrazione e con un pizzico di autobiografia.
Penso che negli ultimi anni, almeno per quanto riguarda il mondo anglofono, il saggio stia avendo un interessante ritorno. C’è troppa autobiografia in giro, siamo circondati da troppi testi da leggere, vicende da seguire. Nasce il bisogno di collegare tutte queste cose e costruire un’interpretazione coerente del mondo. La mia motivazione personale qui era voltarsi indietro e guardare a una quantità di lavori già esistenti e usare una tecnica moderna per connettere frammenti ufficialmente separati e lontani.
La molteplicità legata alla luna dimostra quanto complesso e molteplice sia stato il pensiero dell’essere umano lungo la sua Storia. Per questo ho cercato di usare la forma molto moderna del saggio per osservare un soggetto antico come la luna, costruendo il mio film attraverso la combinazione di frammenti disparati e diseguali come qualcosa del tempo e per il tempo in cui è fatta – il tempo che viviamo oggi – ma, nelle mie speranze, che riesca anche a superarlo, a sollevarsi al di là.

Mi piacerebbe capire qualcosa di più sulla struttura del film che è un po’ come uno schema speculativo di tipo saggistico, riempito però di discorso poetico. Vista anche la sua musicalità ritmica, mi viene in mente che si potrebbe dire tu usi le immagini dei film del passato come strumenti musicali: sono antichi, hanno un suono loro, ma suonano oggi la musica scritta da te.
È davvero un bel modo di vederla. Sì, sono d’accordo.

Allora restiamo sulla metafora musicale e parliamo un po’ di come hai lavorato alla costruzione dell’andamento sinfonico del film.
Capisci che una scelta è giusta proprio come fa il compositore musicale quando suona per la prima volta una sequenza di note che ha scritto. Io ho fatto un po’ come si fa nell’hip hop, prendendo «pezzi» preesistenti e «suonandoli”» come fossero degli strumenti, come dici tu.
Penso ci siano due modi di fare film d’archivio: nel primo non si fa che compilare cataloghi inanellando immagini illustrative. Nel secondo, si scova nelle immagini un significato che in qualche modo era già lì – che l’autore ne fosse consapevole o no – e attraverso il montaggio lo si solleva, lo si illumina. La differenza tra i due tipi di film d’archivio è tutta in questo atto creativo agito attraverso il processo combinatorio del montaggio.
Ci tengo a sottolineare che poi il film è per il sessanta per cento archivi e per il resto fatto di materiali nuovi girati – in pellicola 16 mm – da me e da altri 13 operatori in molti diversi luoghi, dal Portogallo all’India, dall’America alla Nuova Zelanda. Ho sentito il bisogno di mettere nel film anche immagini mie, non solo di affidarmi alle immagini girate da altri. Le immagini nuove e quelle dei film del passato le ho però trattate tutte nello stesso modo, come fossero tutte archivi. Così ho in qualche modo ri-creato le immagini del presente mettendole in dialogo con il passato, il film in fondo è anche basato su questo confronto.

Nel documentario contemporaneo l’autobiografia e la soggettività sono molto più diffusi che in passato. Come hai ragionato sulla presenza e sulla collocazione dell’autore nel tuo film?
Negli anni Sessanta il documentario si è imposto con l’idea che si dovesse essere veri e oggettivi e nascondere l’autore. Une mera illusione. Per me la questione non è interessante, la ritengo chiusa, esaurita. Inizi a fare un film perché hai una sensazione in fondo all’anima, un’idea autentica, semplicemente.
Il fine ultimo è quello di trasmettere quest’idea al pubblico. In questo film quella sensazione è stata fin dall’inizio quella della piccolezza che accomuna tutti gli essere umani nell’universo e che si prova, chiara e forte davanti a una presenza così antica come la luna, che ci sopravviverà molto tempo ancora dopo la nostra scomparsa.
Il mio lavoro è stato tornare indietro e cercare quelli che nella storia del cinema e della letteratura sapessero dirlo meglio di me e presentare, illuminare il loro lavoro. Ma anche parlare con archivisti, musicisti e filmmaker e trovare una soggettività condivisa.
La soggettività non deve necessariamente essere individualistica. Può esistere un argomento che attraverso il confronto con un regista francese degli anni Cinquanta, un archivista estone e un filmmaker neozelandese si trasforma in soggettività condivisa e dà luogo a una forma nuova. La forma di un film dovrebbe sempre coinvolgere e contenere la natura del soggetto sul quale lavora: la luna è esattamente il centro intorno al quale si consuma nei secoli una esperienza soggettiva condivisa.
Per questo ho voluto che la condivisione fosse parte integrante del metodo produttivo del film.