Quando si va a combattere per la libertà non si dovrebbe mai mettere un vestito nuovo, dice una battuta di Un nemico del popolo che non sembra di aver udito nello spettacolo di Thomas Ostermeier riproposto da Napoli teatro festival. È un po’ come dire che non sarà un pranzo di gala, quella cosa lì, qualche schizzo di fango bisogna prevederlo. Forse anche qualcosa di peggio. E qui ne avremo la visibile prova, in un finale dove in scena vola addosso un po’ di tutto. Bombe ripiene di un liquido colorato che si spiaccicano anche sulle pareti. Secchiate in faccia d’acqua sporca.

Non era cominciato così. All’inizio siamo in un interno che un tempo si sarebbe definito bohémien, e più avanti negli anni anticonformista o alternativo, ditelo come volete. Che è anche la sala prova domestica di un’amatoriale rock band riunita intorno a un tavolo fra bicchieri di vino e uno sguardo al laptop, mentre reinterpreta la premonitrice Changes di David Bowie. Pareti di nera lavagna come abbiamo visto anche in qualche casa milanese, dove con un gesso si può scrivere o disegnare sotto l’impulso del momento. Un divano qualsiasi. Niente oggetti di design. Non gli interni borghesi di Nora o Hedda Gabler ma neppure l’astratta ambientazione in cui Ostermeier aveva precipitato John Gabriel Borkman, un deserto di ghiaccio attraversato da nuvolosi vapori.

Il regista tedesco, approdato poco più che trentenne alla direzione della prestigiosa Schaubühne berlinese, si è applicato nel corso dell’ultimo decennio a una profonda rilettura del teatro di Ibsen. Non lo smontaggio analitico dei meccanismi drammaturgici e lo svelamento dei sottotesti con cui si era misurato Massimo Castri, con memorabili creazioni che non per caso disturbavano giornali e intellettuali di destra. È, il suo, un Ibsen fortemente proiettato nel presente. Dice Ostermeier che Ibsen non è il più grande autore teatrale, certo non è Shakespeare, ma è quello che con le sue opere meglio si presta a parlare dell’oggi. Qui, in questo Ein Volksfeind, si dibatte la questione della democrazia in un sistema capitalistico in cui la politica è asservita al potere economico. E le risposte non sono scontate.

In ballo c’è la scoperta che le acque delle terme che hanno assicurato lavoro e un cauto benessere alla cittadina sono inquinate da certi scarichi industriali, e bisogna decidere che fare, dare pubblicità alla cosa potrebbe significare anche la chiusura per anni degli impianti (e per noi è difficile impedire che il pensiero corra ad esempio all’Ilva di Taranto). Tanto più che il medico che ha condotto le analisi, il dottor Stockmann, è fratello di un esponente del partito di governo della città che non la prende bene.

L’intervento drammaturgico sul testo di Florian Borchmeyer toglie di mezzo qualche personaggio secondario, semplificando l’intreccio; ma l’aver riunito in un solo personaggio la signora Stockmann e sua figlia, dando cioè alla prima gli anni e i caratteri (e qualche turbamento erotico) della seconda, assolve anche alla funzione di ridurre l’età della coppia, due ragazzi o poco più affannati dietro a un figlio piccolo che piange mentre loro vorrebbero suonare con gli amici o correggere i compiti di scuola. Vuol dire insomma dare anche una valenza generazionale all’inevitabile scontro con quel potente fratello più grande sempre vestito in maniera formale e armato di argomenti capaci di far breccia non solo nella pavidità della piccola borghesia.

Le posizioni che si fronteggiano, lo stile della lotta avrebbe detto il vecchio Brecht, sono scolpite in maniera quasi didattica. Così sembra. Da un lato il detentore del potere economico e quindi politico; dall’altro il giovane un po’ idealista, spalleggiato dai redattori di un giornale radicale che vedono la possibilità di una spallata a quel potere. Nel mezzo il pallido riformismo del direttore del giornale che però ha le mani in pasta anche nella piccola proprietà immobiliare, dunque avanti a piccoli passi e soprattutto con giudizio, vogliamo tutti le stesse cose ma stiamo attenti a come ottenerle. Al dunque resterà da solo contro tutti il giovane dottor Stockmann, nel mezzo dell’assemblea che ha convocato per spiegare ciò che ha scoperto, non solo l’inquinamento delle acque termali ma ancor più la necessità della decrescita come modello economico.

Con una mossa azzardata Ostermeier trasforma in assemblea la platea del teatro Politeama, luci accese e microfono che passa di mano in mano, interloquendo con gli attori che pure sono scesi dal palco. Momento teatralmente fragilissimo, c’è il rischio di scivolare dal teatro epico in quello «civile» quando qualcuno prende sul serio il dibattito, cioè il gioco, e urla «Affanculo le terme, vi facciamo un culo così». E trova allora spiegazione, nella tirata del protagonista contro i troppi consumi e i danni della democrazia maggioritaria, anche quel «I am what I am» già all’inizio proiettato sul velatino come una sorta di epigrafe polemica – era lo slogan pubblicitario di un marchio di scarpe britannico acquisito dalla multinazionale di Adi Dassler. Ma momento forse necessario e programmato per spiazzare troppo facili conclusioni.

Ch-ch-changes, da un momento all’altro diventerete più vecchi, dicono le parole della canzone. Le abbiamo ascoltate per tutto lo spettacolo, che ora viene restituito alla sua ambiguità fassbideriana (e a proposito, sarà alla prossima Biennale teatro Il matrimonio di Maria Braun che Ostermeier ha tratto dal film di Fassbinder). Dov’è difficile dire con certezza chi si salva. Basta che si presenti il padre con le azioni delle terme rastrellate mentre il loro valore era crollato, e tutti sono di nuovo a professare amicizia al «nemico del popolo». E dopo tanta violenza, la coppia litigherella resta lì sul divano, muta con quelle carte in mano…