Ieri pomeriggio la Biennale teatro diretta per il sesto anno da Alex Rigola, ha segnato il suo momento di maggior prestigio e significato, consegnando il Leone d’oro alla carriera a Christoph Marthaler. Il regista svizzero, uno dei pochi veri maestri della scena rimasti in Europa, ha vinto la sua caratteriale «ritrosia», come del resto ha fatto l’altro giorno nell’incontro pubblico, esibendo un divertito fair play anche davanti alle domande più astruse. Forse è cambiato anche lui negli anni, da quando col Muro ancora in freschi frantumi, guidava gli attori Ddr della Volksbühne al grido liberatorio di Murx murx murx… Da allora è forse oggi il più bravo in Europa a coniugare, attraverso le più dissonanti «armonie» musicali, la drammaturgia e la cultura di massa con la sua feroce visione del mondo. Lui stesso raccontava un tempo di quando, mentre bussava con poca fortuna alle porte dei teatri importanti (Strehler compreso) si guadagnasse gli spiccioli per sopravvivere usando la propria preparazione musicale facendo la manche per strada.

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Se a Marthaler è doverosamente toccato inaugurare il Festival veneziano, a fargli da spalla il giorno dopo è stato un altro regista di area tedesca, Thomas Ostermeier direttore della berlinese Schaubühne. Di lui, ospite fisso e ben noto ormai a Venezia come a Roma o ad Avignone, si conoscevano, dopo gli inizi eroici e cruenti sulla drammaturgia contemporanea, la serie di riletture del grande dramma borghese di Ibsen (e anche di qualche Shakespeare) messi in trasparenza di contemporaneità dentro i lussuosi loft della nuova borghesia intellettuale di Berlino. Stavolta sorprende tutti prendendo come testo un film di Fassbinder, uno dei più discussi per altro, Il matrimonio di Maria Braun. Ursina Lardi ha solo il biondo dei capelli in comune con la mitica Hanna Schygulla, ma significativamente è l’unica donna nel cast, tutti gli altri ruoli, maschili e femminili, sono impersonati da attori. Non ci sono i divani e le vetrate «affluenti» delle altre ambientazioni del regista, ma solo pochi elementi, scarni e allusivi, come a vista sono i cambi d’abito e di ruolo degli interpreti.

Paradossalmente, scompare qui l’effetto «patinato» della pellicola fassbinderiana: la scabra povertà dell’allestimento di Ostermeier diviene quasi volontà di vedere quasi al microscopio quel momento nodale nodo del dopoguerra tedesco, il passato che non passa, quell’esame coscienziale che pochi allora indagarono, e che ora torna a incuriosire qualcuno preoccupato dello strapotere tedesco nell’economia e nell’Europa. Una radiografia di un momento storico che, benché protagonisti siano fame, amori, destini e «scelte» di vita, mantiene tra zone ombrose o sfocate, anche nitidi segnali di malattia, che causano infelicità nell’individuo. Temi che Fassbinder aveva ben presenti dalla propria infanzia e dalla propria storia familiare, e che Ostermeier scava forse con maggior distacco, ma senza nascondere, a se stesso e a noi, la loro virulenta complessità, e gli effetti quasi indicibili sull’individuo e sul suo microcosmo: familiare, anagrafico, e di sopravvivenza. Spettacolo inquietante e «di peso», a parte qualche istante di eccessiva immedesimazione degli interpreti maschili, che può far temere riedizioni di antichi ostracismi verso la disinvolta tribù Fassbinder.

Inutile fare paragoni con la rilettura molto personale che del regista e drammaturgo tedesco fa da noi Antonio Latella (atteso qui giovedì con i suoi tre monologhi dedicati Hitler, Francis Bacon e Pasolini). Eppure il regista italiano viene in mente in qualche momento di Hamlet presentato qui dal lituano (ma molto presente in Italia) Oskaras Korsunovas. Il parallelo viene per una famosa maratona latelliana di dieci ore attorno al principe danese. Poi si interrompe, perché Korsunovas, come spesso ama fare, riempie la visione di infiniti artifici teatrali, come Polonio che parla al cellulare, o all’inizio con la teoria dei camerini comprensivi di attori allo specchio. E quei «locali da trucco», smontati e rimontati, si sposteranno poi all’infinito creando continuamente nuove coordinate logistiche alla vicenda. È una bulimia di espedienti scenici quasi smodata, assai tipica del regista lituano: come quei Capuleti e Montecchi di un suo Romeo e Giulietta, pizzaioli di esercizi rivali, in eterna lotta tra di loro, e con la pasta lievita. Qui ci sono decine e decine di «invenzioni» che possono procurare perfino confusione, ma il pubblico generoso ride molto e sembra apprezzare. Alla faccia dei dolori di Amleto.

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Grande successo, e sicuramente meritato, ha ottenuto una vecchia conoscenza della Biennale, arrivato qui con la sua compagnia catalana. Lluis Pasqual è stato circa vent’anni fa un ottimo direttore di Biennale teatro: ha chiamato qui Patrice Chereau come attore (oltre che regista) della Solitudine dei campi di cotone di Koltès, e dagli Usa ha fatto arrivare l’edizione originale di Angels in America; addirittura ha coprodotto i memorabili e fino ad allora inediti Turcs tal Friul con Lucilla Morlacchi e l’Elfo e Giovanna Marini. Ora ha portato ospite Il cavalier d’Olmedo di Lope de Vega: e il siglo de oro diventa terreno torbido e bruciante (simile alla Celestina) come raramente si vede, con attori scattanti e dinamici, che comunicano grande vitalità, quasi a voler sconfiggere la morte che suggella il testo. Grande abilità e mestiere da parte del regista, e successo sicuro di pubblico.