Dopo vari titoli di poesia, Margaret Atwood debuttò alla narrativa nel 1969, con il romanzo La donna da mangiare, che rientrava nei circuiti tematici del femminismo nordamericano. La vicenda era infatti centrata sulla figura di Marian, che decide di usare l’anoressia come arma di protesta contro il fidanzato Peter, dal quale si sente usata, ovvero «mangiata».
Nel 1976 l’autrice canadese pubblicò poi Lady Oracolo, che in una rivolta dell’immaginazione presentava la protagonista Joan Foster come una donna che finge di essere morta per trovare la quiete necessaria a scrivere con calma i romanzi rosa che adora. Quelle fiction romantiche sono infatti la sua massima passione e l’oggetto della violenta ripugnanza del marito, impegnatissimo intellettuale di sinistra.

Un decennio dopo, nel 1985, uscì quello che resta il suo più riuscito romanzo, Il racconto dell’ancella, subito accolto da non poche controversie negli Stati Uniti. La ricorrente tensione verso la prosa poetica di Margaret Atwood giunge, in questa scrittura distopica, all’apice confrontandosi con la lingua oracolare, profetica, della Bibbia di Re Giacomo e citando peraltro esplicitamente nel titolo il modello dei Canterbury Tales di Geoffrey Chaucer.

Erano gli anni in cui le cronache americane registravano quotidianamente atti, spesso violenti, del movimento antiabortista, che attaccava con le armi gli ospedali dove si accettava di effettuare l’intervento, inneggiando: «Gesù Cristo è generale/ solo lui deve regnare». Il 15 giugno del 1984 il Women’s Health Center dell’Alabama subì un grave attacco, mentre i telepredicatori insistevano istericamente sul tema.

Nella vivace traduzione di Camillo Pennati, Il racconto dell’ancella arrivò in Italia nel 1988 da Mondadori, e ora quella versione viene opportunamente riproposta da Ponte alle Grazie (pp. 400, € 15,00) in coincidenza con il successo della serie televisiva ideata da Bruce Miller per Hulu Productions, che arriva a distanza di ventisette anni dalla precedente trasposizione cinematografica di Volker Schlöndorff, sceneggiata da Harold Pinter, quando il libro peraltro negli Stati Uniti venne presentato come una specie di profetico manifesto anti-Trump.

Dopo una esplosione nucleare i puritani più estremi (non poche, peraltro, le assonanze con il classico della fantascienza distopica Le crisalidi di John Wyndham, riproposto da Beat nel 2015) hanno preso il potere assoluto nella cupa landa di Gilead, dove una organizzazione che si definisce «I figli di Jacob» ha eliminato il governo legittimo. Le ancelle, tra le poche donne ancora in grado di fare figli nonostante le radiazioni che hanno contaminato l’area, debbono ubbidire agli ordini delle severe «zie», adibite a prepararle all’atto sessuale con i capi della comunità. Per questo è necessario l’aiuto delle mogli, incapaci di procreare, cui si chiede di partecipare a sinistre nonché grottesche cerimonie di accoppiamento.

Malgrado l’ossessione riproduttiva, ribadita dalla nuova teologia, esistono in realtà locali dove trionfano le Jezebel, sacerdotesse del sesso clandestino che lo stato relega in bordelli nascosti per intrattenere l’élite e gli ospiti stranieri. In questa favola nera, che si conclude con una fuga disperata e con la rivalsa del desiderio della protagonista contro l’ipocrisia furente della nuova religione di regime, l’elemento di maggiore interesse è l’invenzione dell’ossessiva retorica delle autorità, che dividono le persone in categorie astratte o le costringono con la violenza a diventare figure di una sinistra moderna sacra rappresentazione, espressa nei termini sonanti di un a lingua barocca e oracolare. L’adesione a un immaginario censorio da Lettera scarlatta si traduce in un idioma ritmico, battente, a cui cerca disperatamente di sfuggire la protagonista.