L’affido  è quello che si dice un film «consensuale», e il doppio premio – Leone d’Argento e De Laurentiis per la migliore opera prima – alla scorsa Mostra del cinema di Venezia, dove era in concorso ne sono una conferma. La storia di violenze familiari confezionata senza lasciare buchi – e senza nemmeno «risparmiare» narrativamente alcuno svolgimento dei passaggi messi in campo – «accarezza» di continuo le aspettative dello spettatore offrendogli tutto ciò che vuole vedere: quanto conosce, ciò che fa parte della cronaca con i suoi elenchi infiniti di femminicidi, che si vede nei talk televisivi messo in campo proprio come si immagina sia. Una tragedia nota a cui ci si può appassionare (o indignare, commuovere, spaventare ….) ma che in fondo si è già compiuta (e si compirà).

Miriam (Léa Drucker) si è separata dal marito violento, ha lasciato la cittadina dove vivevano, la casa, il lavoro, cercando riparo dalla furia dell’uomo a casa dei genitori; una fuga che la figlia maggiore non le perdona, perché l’ha costretta a allontanarsi dall’amato, e che il figlio più piccolo condivide senza domande. Poi però un giudice molto solerte decide, nel consesso di esperti di faccende familiari, che anche il padre (Denis Ménochet) ha diritto di trascorrere del tempo coi propri figli, nonostante questi abbiano ripetuto che non vogliono stare con lui, che l’uomo è a posto, pentito – certo senza essere lombrosiani solo a vederlo con quella sua sagoma minacciosa non ispira fiducia e i fucili da caccia che tiene in auto aprono inquietanti scenari.

E se la maggiore grazie all’età può rifiutarsi il piccolo non ha scampo. Il terreno di scontro diviene dunque il ragazzino costretto dalla legge ai fine settimana con «Quello» (così chiama il padre) di cui ha paura. La madre che è disperata cerca di mediare per evitare gli scatti di ira dell’ex-marito che potrebbero essere pericolosi per il ragazzo e quest’ultimo a sua volta sopporta opponendo alla crudeltà di quelle ore senza fine il silenzio per proteggere la mamma. Che dell’uomo è l’ossessione, ogni cosa lo riconduce a lei con un’ansia feroce di vendetta Tutto vero: Xavier Legrand per questo suo esordio nel lungometraggio ha raccontato di avere studiato molti casi giudiziari, e sull’argomento, la violenza nel nucleo familiare, aveva già lavorato nel cortometraggio Avant de que tout perdre. eppure tutto suona «fasullo». L’affido è uno di quei film «da sceneggiatura», che di per sé non è un difetto se di questa scrittura non diviene l’illustrazione.

È proprio nello svolgimento del suo soggetto che Legrand perde di vista il film, o meglio il cinema a cominciare dalla potenzialità che era la scelta di spostare la lente del racconto dal punto di vista della sofferenza (implosa) del bambino. E in quello scollamento tra la burocrazia giudiziaria e i sentimenti, il vissuto che gli esperti non sembrano considerare. Dalla parola (giuridica/intima) la regia di Legrand si sposta verso l’emozionalità, ammicca al thriller – c’è chi ha parlato di Shining (?) – cerca la paura quella che si sobbalza sulla sedia quando all’improvviso parte un suono troppo forte. E lascia fuori nel suo proposito dimostrativo le ambiguità, i chiaroscuri, le pieghe, finché nonostante i propositi a occupare il fotogramma ci sarà fino a debordare il turpe tizio. Proprio come nelle fotografie della cronaca.