Contro il balletto sadico dei porti chiusi, l’illegalità dei respingimenti, contro un’Italia ignobilmente sempre più salvìnica che salvifica, non rimane che un film, non italiano ma francese: La Villa, («La casa sul mare» nella versione italiana) di Robert Guédiguian, che verrà proiettato il 27 a Fiesole al Premio ‘Maestri del Cinema’, consegnato quest’anno al regista marsigliese.

In concorso alla scorsa Mostra di Venezia, uscito in Francia a fine novembre, il ventesimo film dell’autore di Marius et Jeannette e La ville est tranquille è, involontariamente, diventato negli ultimi mesi un contromanifesto del nostro crescente degrado politico e civile.

Costruito come una parabola, in una serie d’episodi-sfaffetta, oggi-ieri, ieri-oggi, oggi-domani, il film, che riunisce tre figli anziani al capezzale del padre morente, si apre nel finale a un inatteso futuro, post-mortem, non solo del padre, ma dei tre figli, quando, nella baia antistante la villa del titolo, spuntano dal mare tre fratellini di colore, trasportati dalle onde del naufragio.

S’impone l’accoglienza e la protezione, una nuova, fraterna solidarietà, davanti a quella fratria a specchio, a quest’oggi che richiama ieri e è già domani: «Generosità d’un gesto – è il commento d’una bella pagina di Le Monde – piantato come un seme nel cuore dell’avvenire. Così che il mondo, che appartiene a tutti gli uomini, possa un giorno rifiorire. Così che la fine del film sia il suo inizio».

Apparentemente modellato su un topos del cinema (il bilancio d’una vita davanti a una vita nostra che se ne va, un po’ come nei Tre fratelli di Francesco Rosi), il film sfugge presto alle convenzioni esistenziali per allargarsi a interrogativi concreti sulla realtà odierna, sul mondo in traumatica, meschina mutazione. Come essere giusti, si chiedeva Brecht, in un mondo che non lo è?

Se lo ridomanda Guédiguian, da sempre, ogni volta che gira un nuovo film, ogni volta che lo rincontriamo: a un antico Fipa di Biarritz, al tempestivo ma già lontano omaggio del Bergamo Film Meeting o, di recente, ai Rendez-vous di Unifrance con il cinema d’annata.

Questione-migranti, Robert Guédiguian: un modo, per lei, di mettere alla prova, davanti a un’emergenza dura e cruda, non più eludibile, ogni riflessione ideologica?

Il rifugiato come valore in sé, in astratto, è la dimostrazione che viviamo in un solo mondo e che il mondo è ovunque. In questo spazio esclusivo, cresce a forbice l’ineguaglianza ricchi-poveri: è quel che racconta, in sintesi, la figura del rifugiato. Oggi, quelli della mia generazione, i sessantenni, si sentono espropriati dell’azione politica. Mi son detto: bisogna che il mondo intero entri nella cala marina della Villa. E la questione-rifugiati è diventata un’evidenza. I personaggi del film s’interrogano sull’emancipazione umana, su come migliorare il mondo, princìpi etici trasmessi dal padre: cercano una motivazione e la motivazione arriva. Raccogliere quei tre migranti li rimette in marcia. Ritrovano finalmente una causa da difendere.

I suoi personaggi sono spesso alveari di interrogativi politici.

Bisogna sempre attivarsi perché gli altri non siano privati del nostro benessere: anche lavorare a qualcosa che vada al di là di noi, cioè che ‘faccia storia’, che si trasformi in ‘storia’. Dobbiamo preoccuparci che la nostra attività continui, almeno un po’, dopo la nostra morte. Se costruisci una casa, devi poterti dire che durerà più a lungo di te. Puoi anche piantare un albero, o scrivere una poesia, o avere figli… O le tre cose insieme, meglio ancora!

Lei le ha fatte tutte e tre?

Sì (risata).

In «La Villa», questo interrogarsi diventa più intimo, scava nel profondo, fino alla domanda ultima sulla propria identità. Fa pensare a Pasolini.

Pasolini è stato sempre un riferimento costante nel mio cinema. La questione delle radici, dell’identità si pone con sempre maggior gravità nella nostra epoca di globalizzazione, di perdita delle diversità, di omologazione devastante. Lo profetizzava quasi mezzo secolo fa Pasolini. È una questione rimasta in pasto alla destra estremista e reazionaria, ma non è di destra né di sinistra: riguarda la nostra stessa essenza, esistenziale e civile.

È da qui che traggono forza i suoi film?

La forza che chiedo al mio cinema è di far riflettere, di lasciare che i personaggi esprimano le loro differenti idee. Questo permette d’aprirsi, di capire ciascuno di loro e anche di farne uscire qualche verità. Il mio cinema è sempre un tentativo di rappresentazione realistica dei problemi sociali: ha per modello il vostro Neorealismo.

Rappresentazione che non si ferma alla radiografia ma che diventa diagnosi e insegnamento civile.

Credo che nel mondo, qualunque esso sia, occorra sempre battersi perché migliori. L’ideale sarebbe che non smettessimo mai di porci la domanda su quel che potrebbe migliorare. Più giustizia? Più eguaglianza? Più verità? Ci sarà sempre da fare per migliorare le cose. La mia battaglia, il mio sogno? Più eguaglianza.

In lei la critica del presente va di pari passo con un confronto con il passato.

Pasolini diceva che ‘Il passato è la sola critica globale del presente’. Da dove mai trarre elementi per criticare il presente se non dal passato? La nostalgia, che abita spesso i miei personaggi, la definirei ‘nostalgia combattiva’, tipo Il giardino dei ciliegi di Cecov o Tokyo Story di Ozu. La nostalgia è sempre rivoluzionaria. Evidentemente non considero che fosse meglio prima, ma nemmeno che sia meglio oggi. Penso che non sia mai così bello nè così brutto come si crede. Quelli che stanno troppo nel presente, convinti che il presente ‘va de soi’, i prammatici, insomma, sono i veri reazionari. Io mi considero nostalgico e rivoluzionario.

A proposito di passato e, anche, di identità: il suo rapporto con Marsiglia, ambiente fisso, location-feticcio di quasi tutto il suo cinema?

Io mi dichiaro marsigliese e, allo stesso tempo, tedesco (per parte di madre) e armeno (per parte di padre). Marsiglia, mia città natale, che conosco come le mie tasche, oggi è completamente cambiata, cancellando quel che era. Ora cerca di riprendersi, di ristrutturarsi. E io continuo a cercare angoli che mi ricordano com’era quand’ero piccolo, a rispolverare quel mio paesaggio d’infanzia. Guardo Marsiglia, guardandomi indietro. Riecco la nostalgia.

La Marsiglia della sua infanzia e dei suoi film è il quartiere proletario dell’Estaque: operai, disoccupati…

Il piccolo grande universo del lavoro, quel che Victor Hugo ha descritto in Les pauvres gens, la povera gente. Ancora il passato: tornare alle origini per veder l’evoluzione ma anche la stagnazione della società. Hugo si è sempre servito molto di personaggi popolari, marginali, modesti. Allo stesso modo voglio far udire le piccole voci che a milioni non riescono a farsi sentire e a cui un film puo’ dare sfogo. Il cinema è un mezzo per dire ‘no’ agli ingranaggi d’oppressione, di sopravvivenza sempre in bilico. Filmare le piccole cose del quotidiano: è la mia filosofia, il mio mestiere. Una quotidianità in cui ciascuno di noi puo’ riconoscersi.

Una moderna comédie humaine fatta più di comédie che di tragedia.

Nell’epoca attuale, che non è certo limpida, mi pare inaccettabile rinunciare a mostrare quel che non va male del tutto, anche se minuscolo. Mi dà sui nervi il compiacimento nel constatare la disgrazia. Credo che al cinema si debba chiedere di proporci, con storie, personaggi e emozioni, piccole resistenze, sia pure microscopiche, al mondo com’è. In La Villa, chissà che, grazie all’incontro con i tre fratellini, i tre adulti, esistenzialmente alla deriva, non ritrovino una ragione di vivere. Son contento di quello spiraglio di speranza. Si va al cinema per assistere a una critica del presente, ma anche per indovinarvi un inizio di tempi nuovi, per scorgervi una profezia positiva.

3–continua. Le puntate precedenti (Jean-Pierre Léaud e Brian De Palma) sono uscite il 16 e 23 giugno

Premio Fiesole ai maestri del cinema

Robert Guédiguian, 65 anni, riceverà il Premio ai Maestri del Cinema venerdì 27 alle 21.30 al Teatro Romano di Fiesole, dove verrà proiettato La Villa (La casa sul mare). La serata sarà aperta alle 18.30 da un incontro con l’autore, presente Ariane Ascaride, moglie, interprete e musa del suo cinema. Completano l’omaggio: la monografia edita da ETS di Pisa, curata dal SNCCI toscano, che dal 2000 ha assunto la direzione artistica del Premio, e la personale al Teatro Romano di Fiesole e al Piazzale degli Uffizi a Firenze nell’ambito di ‘Apriti Cinema’. Creato nel 1966,il Premio è andato tra gli altri a Luchino Visconti, Ingmar Bergman, Harold Pinter, Robert Altman, Michelangelo Antonioni, Orson Welles, Stanley Kubrick, Theo Anghelopoulos, Vittorio Storaro, Marco Bellocchio, Ken Loach, Terry Gilliam, Dario Argento. “Guédiguian – lo presenta il direttore artistico Gabriele Rizza –, cineasta popolare, attivista politico di sinistra, da più di 30 anni evoca la cronaca sociale del mondo operaio della sua infanzia: ma al tempo stesso racconta un’avventura ricca di riflessioni sul mestiere del cineasta, l’impegno politico, i legami intimi tra i personaggi reali e quelli della finzione. È straordinario come, nonostante il lato nostalgico di un cinema che sembra immutabile, riesca a raccontarci la nostra epoca”.