«Il lavoro, quello vero, è un merletto di Bruxelles, dove la cosa più importante è ciò che sostiene il ricamo: l’aria, il traforo, gli interstizi» – rivendicava Osip Mandel’stam in quell’incosciente, esacerbato faccia a faccia col potere sovietico che è la Quarta prosa, scritta nel 1930, ma pubblicata solo nel 1988.

La compostezza che riposa dentro la sua opera in versi non deve trarre in inganno: il suo è uno dei mondi più implacabili del Novecento russo. È la ferocia del suo tempo che sgocciola nelle compatte strofe mandelstamiane, per rifluire in rivoli torbidi, sfolgoranti di invenzioni. Ma è anche il rombo dell’eternità a riecheggiarvi, lo stesso che Gavrila Deržavin sentiva distintamente accostarsi al suo orecchio finissimo nell’ultimo quarto del XVIII secolo.

Un nuovo, cospicuo tassello si aggiunge ora alla nostra conoscenza di Mandel’stam con la pubblicazione dei Quaderni di Mosca (a cura di Pina Napolitano e Raissa Raskina, Einaudi, pp. 344, € 16,50). Non pochi studiosi si sono succeduti nelle trasposizioni in italiano, con risultati a volte straordinari, ma questi versi per la maggior parte non erano mai stati tradotti. La mano diversa di ognuna delle due traduttrici tocca e raggiunge corde differenti dell’originale: più ammaliata dalle geometrie formali, dalla palpabilità delle immagini Raskina, più incline a variare la sintassi inabissandosi nelle falde storiche dell’italiano, in cerca di duttili equivalenze Napolitano. Entrambe empatiche ai guizzi di nuovo conio del testo, al risalto assoluto del dettaglio. Oltre alle doviziose note finali, due scritti arricchiscono il volume di prospettive distinte: quello di Raskina ripercorre gli eventi interiori e la storia degli anni pertinenti ai Quaderni, e illumina l’emergere dei temi più eloquenti offerti dallo snodarsi della cronologia, ognuno oggetto di un microstudio fitto di suggestioni. Il saggio di Napolitano porta invece l’attenzione sulla struttura del lavoro poetico di Mandel’stam, si addentra nelle profondità delle immagini, indaga il mistero dei rapporti tra le parole e i significati, ponendo sul tappeto anche le questioni traduttive più stringenti.

Dopo un silenzio poetico protrattosi per cinque anni (riempito dalle prose vertiginose del Francobollo egiziano, dalle riflessioni critiche, dalle traduzioni), nei Quaderni di Mosca prende forma una nuova istanza. «All’inizio degli anni Trenta la poesia di Mandel’stam diventa poesia di sfida», scrive il critico Sergej Averincev, «accumula al proprio interno l’energia per alimentarla – collera, sdegno». Del poeta acmeista di Kamen’ e di quello immerso nei bagliori neoclassici di Tristia non c’è più traccia. È bastata una manciata di anni (tra i più crudi della storia del paese) per farlo precipitare nei bassifondi della scena culturale sovietica: da poeta tollerato a fatica, passa a essere inviso, guardato a vista. I dissapori col suo tempo diventano faide, gli attacchi pubblici si susseguono.

Tenerezze armene
Mandel’stam riprende a scrivere versi miracolato da un soggiorno in Armenia, dalle nuove esperienze e conoscenze (il biologo Boris Kuzin, in particolare) maturate nei «duecento giorni» trascorsi in quella terra nel Trenta. Ne discende una scoscesa, urticante compagine di liriche, in cui strepita un clamore primigenio appena a ridosso dei detriti della quotidianità, e le collisioni di sequenze verbali fanno convergere in una stessa quartina brandelli di piani semantici tra loro discordi, captandone nessi a noi ignoti fino al momento in cui li scorgiamo con una chiarezza lampante. Spiccano tra le pagine alcuni gruppi di liriche radunate per dominanti tematiche o formali, smaglianti di una magnificenza ruvida, assordante. Nel ciclo sull’Armenia, la tenerezza per una patria nuova di zecca – rivelatasi nel viaggio intrapreso insieme alla moglie, che di lì a poco si muterà in itinerario scritto – si specchia in quello battuto un secolo prima dal Puskin del Viaggio ad Arzrum – nutrendosi della fascinazione per quella «lingua sinistra» che Mandel’stam aveva provato a fare sua, tessuta di «suoni proibiti alle labbra russe, arcani, ripudiati», «parole dalle pareti spesse, strati d’aria nelle semivocali…».

Dodici liriche taglienti, giocate su tinte roride di «azzurro e argilla», di «roca ocra», con l’occhio e l’orecchio al massiccio dell’Ararat, alla vita cangiante che si dipana tra i vicoli di Erevan e alle tracce di civiltà scomparse, alle risonanze di Hafiz e del Cantico dei Cantici.

Nelle Ottave la ciclizzazione diventa indagine sul senso e il suono che torna sui propri passi per cavarne esiti impensati prima, e si affida all’eco lasciata nel lettore dalla tappa precedente; ma non è un procedere verso l’obiettivo finale – è piuttosto un disporre materia preziosa su più strati, intorno a un nucleo sbalzato a vivo. Altrove l’emozione è filtrata dal prisma petrarchesco: sono le quattro liriche che trascinano i sonetti del Trecento nel corpo duttile e dolente della lingua di Mandel’stam degli anni Trenta per trarne una partitura tutta sua, cui il poeta russo infonde asprezza per addizione di lessico geologico e fratture, e lo straordinario irrompe insieme al volo di falchi e di cigni. Maestro, anche in questo, il Deržavin di Zadumcivost’ (che nel 1807 reinterpretava il sonetto XXXV immettendovi le note più personali della sua lira preromantica), Mandel’stam amplifica la voce di Petrarca in più amare volute: «Preda di proterve illusioni, dorme ora/ il cuore nella cripta della notte grama». E sta all’abilità della traduttrice farci ritrovare gli echi delle tonalità del Canzoniere nel gioco di rifrazioni a cavallo tra i secoli.

Contemporaneità di un marginale
A imporsi sono anche singole liriche, come i versi del ’34 in memoria di Andrej Belyj, «turchino maestro», «collezionista di spazio», «pattinatore e primogenito, a calci cacciato dal secolo/ sotto la gelida polvere di declinazioni formate ex-novo». Un requiem che è anche auto-compianto.

Lo spazio urbano abitato da Mandel’stam assume un rilievo tangibile: basti pensare alla superba lirica Voronež del periodo dell’esilio tra il ’34 e il ’37, che ne disseziona e ricrea il significato giocando con la sostanza sonora di cui è fatto il nome della città. Qui a presidiare è Leningrado, spazio diletto diventato angusto, già quasi patibolare, tombale. O una Mosca riletta per lampi stranianti, fotogrammi sospesi tra ricordi del passato pre-rivoluzionario (le vie in cui «passeggiava l’orso agli arresti-/ eterno menscevico della natura stessa») e presente «buddista», incarnazione di tutte le contraddizioni del suo tempo, la città dove «di appartamento in appartamento passano/ spifferi in un’aerea catena di montaggio,/ come studenti perdigiorno a maggio», in cui «da Rembrandt va in visita Raffaello». È proprio in quella visione affollata, colta dalla prospettiva della fuga del tempo, che Mandel’stam sente il bisogno di professarsi «contemporaneo», smentendo se stesso e la propria inclinazione alla marginalità. Sempre in bilico tra disperazione e baldanza, nessuno come lui ha consacrato all’estatica dannazione della poesia ogni proprio anelito vitale. Distillando il dolore in tersa luce, esautorando il presente dal potere di procurare il male.