Anche se Bernie Sanders continuerà la sua battaglia politica fino alla convenzione democratica, ormai sappiamo che alle elezioni presidenziali del prossimo novembre negli Stati Uniti saranno in campo una candidata «repubblicana» e uno indipendente: la repubblicana è Hillary Clinton e l’indipendente è Donald Trump. Certo, la prima correrà sotto le bandiere del partito democratico e il secondo sotto quelle del partito repubblicano ma le etichette contano poco.

In sostanza, sulla scheda ci sarà una candidata interventista, decisa a mantenere la supremazia americana nel mondo, sostenitrice di una nuova guerra fredda e delle alleanze tradizionali come la Nato: Clinton.
L’altro candidato, Donald Trump, torna indietro nel tempo al movimento degli anni Trenta, America First: protezionismo commerciale, niente alleanze permanenti, interventi militari solo quando è strettamente necessario per la sicurezza nazionale, xenofobia.

A larga maggioranza

Erano le posizioni dei repubblicani del Midwest, abbandonate dal 1945 in poi in nome della guerra fredda contro l’Unione Sovietica e oggi resuscitate. Come si è capito nella stagione delle primarie, Trump non è un repubblicano, ha conquistato dall’esterno il partito repubblicano, con quella che in Borsa sarebbe definita un’Opa, un’offerta pubblica di acquisto ostile nei confronti dei dirigenti in carica.
Ciò che merita attenzione è il fatto che questa operazione di conquista dall’esterno è avvenuta esplicitamente contro l’establishment repubblicano e ha avuto successo, tra le altre cose, perché «Gli Stati uniti sono stanchi del mondo», come ha scritto «Le Monde diplomatique». È l’opinione pubblica che, a larga maggioranza, oggi vorrebbe dedicarsi alla ricostruzione del paese dopo 14 anni di guerra in Iraq e in Afghanistan: Trump si fa interprete di esigenze largamente diffuse quando dichiara: «Spendiamo migliaia di miliardi di dollari in Medio Oriente mentre le infrastrutture del nostro paese si disintegrano».

Profonde scomuniche

Questo non significa che le elite di Washington siano pronte ad accettare una svolta in politica estera che metterebbe a rischio il loro potere, le loro carriere, il loro status sociale.
L’attacco più duro contro Trump è venuto da 121 membri della nomenklatura repubblicana, che in superficie gli rimproveravano il suo razzismo e i suoi insulti verso gli alleati ma in profondità lo scomunicavano per il suo rifiuto degli interventi militari nel mondo ad ogni pretesto, della Nato e dei trattati di libero scambio.

Qualche giorno fa Eliot Cohen, una figura di punta tra i neoconservatori, ha addirittura proposto di fondare un terzo partito.
Non se ne farà nulla, ovviamente: neppure Theodore Roosevelt ebbe successo come candidato indipendente, nel 1912, ma il solo fatto che la possibilità venga evocata rivela quanto avanzato sia lo stato di disgregazione del tradizionale sistema politico basato su democratici e repubblicani.

Ciò che terrà insieme il sistema, almeno per un po’, è il fatto che in politica estera i repubblicani in fondo un candidato ce l’hanno, ed è Clinton. Arriva quindi a proposito il libro di Diane Johnstone Hillary Clinton. Regina del caos (Zambon editore, pp. 248, euro 15, traduzione di Cristiano Screm).

Nella storia americana, il Segretario di Stato era tradizionalmente la persona più potente nel governo dopo il presidente e godeva di larghi margini di autonomia, spesso era stato lui stesso un potenziale candidato del partito alla presidenza, come William Seward, rivale sconfitto di Lincoln nel 1860.
Nel caso di Hillary Clinton, invece, la sua nomina a Segretario di Stato non le ha dato un ruolo determinante nella politica estera, su cui Obama aveva ben chiaro quale fosse il suo mandato: districare gli Stati Uniti dalle guerre in Iraq e in Afghanistan. Non c’è riuscito, ma la volontà c’era e discendeva da una visione articolata del ruolo degli Stati Uniti nel mondo.

In sostanza Obama, già nel suo primo mandato, aveva preso atto dei limiti della potenza americana. Forse non aveva letto il vecchio libro di Gabriel Kolko che porta appunto questo titolo, ma sicuramente gli era familiare il libro di Michael Mandelbaum The Frugal Superpower, che spiegava come le follie di George W. Bush non potessero durare a lungo, semplicemente perché le risorse non c’erano.

Appetiti neocoloniali

Gli Stati Uniti sono un paese pesantemente indebitato, in particolare nei confronti di un potenziale rivale come la Cina. A Clinton, che aveva idee diverse, fu lasciata la gestione della macchina burocratica della diplomazia, incaricata di gestire i rapporti con gli amici nel mondo.
Le differenze di approccio si videro nel 2011, quando scoppiarono le primavere arabe: in Egitto Hillary Clinton sostenne fino all’ultimo Mubarak, proponendo poi di sostituirlo con il suo vice Omar Suleiman (ex capo dei servizi segreti). Fu Obama a dare il via libera alla transizione pacifica che sarebbe sfociata nella presidenza di Mohammed Morsi, poi eliminato da un colpo di stato militare nel 2013.
Negli stessi giorni scoppiò la rivolta in Libia, con uno sviluppo del tutto diverso. Come racconta Diana Johnstone, l’occasione per eliminare l’odiato Gheddafi era troppo favorevole: gli appetiti neocoloniali di Francia e Inghilterra trovarono una sponda a Washingon in Hillary Clinton.

Fu una «guerra tutta per lei», Obama era contrario ma alla fine cedette alle pressioni, come ha fatto sapere anche recentemente in una lunga intervista a «The Atlantic» (The Obama Doctrine). Gheddafi fu eliminato, la nuova Libia democratica e filoccidentale però non nacque affatto: al suo posto si installò il caos, tagliagole dell’Isis compresi.
Oggi, il Medio Oriente autoritario ma stabile del 2001 è stato sostituito da un arcipelago di stati falliti, dove c’è la guerra civile (Siria e Iraq), dittature militari, o islamiste, ogni giorno più violente (rispettivamente Egitto e Turchia), una spartizione di fatto del territorio tra milizie (Libia).

L’unico paese dove c’è un’apparenza di tranquillità è la Tunisia. Questa situazione sembra la prova dell’avventurismo dell’amministrazione Bush prima e dell’incertezza strategica dell’amministrazione Obama dopo: 15 anni di errori che sfociano nel caos attuale, particolarmente pericoloso per l’Europa.
Un’altra interpretazione è però possibile: e se il caos fosse voluto? Se l’instabilità, l’assenza di governi legittimi, le guerre dei droni fossero le condizioni migliori per la sopravvivenza di un imperialismo in fase declinante?

Questa è l’interpretazione di Diane Johnstone, che personifica in Hillary Clinton una linea di politica estera aggressiva e cinica dietro la quale vi sono potenti forze economiche e politiche degli Stati Uniti, che non si rassegnano alla fine del mondo «unipolare» nato nel 1991 con la dissoluzione dell’Unione Sovietica.

Storture espansive

Si tratta di un’idea non nuova, avanzata già 24 anni fa da Samir Amin, il cui libro del 1992 si intitolava non a caso Empire of Chaos. Il celebre economista marxista dava una spiegazione teorica delle esplosioni di violenza che vediamo ormai ogni sera nei telegiornali: «Il caos risulta da una mancanza di corrispondenza tra la geografia del potere da una parte e gli effetti dell’espansione globale del capitale dall’altra».
In altre parole, l’inclusione dell’intero pianeta nella sfera d’azione del capitalismo finanziario si traduce in operazioni di rapina sempre più a breve termine, le cui conseguenze sulle società locali, siano esse i ghetti di Baltimora o le periferie dello Yemen, sono del tutto indifferenti a chi lavora a Wall Street ma suscitano reazioni disperate e violente.
Il libro di Diane Johnstone ci avvisa che la prossima presidente degli Stati Uniti (Trump non ha realistiche chances di prevalere) sarà l’espressione di una coalizione politico-culturale che non porterà certo la pace nel mondo