La proclamazione ufficiale della santità di monsignor Oscar Romero, che avrà luogo domani in Piazza San Pietro insieme a quella di Paolo VI, non potrà aggiungere nulla alla sua figura – a proclamarlo santo ci ha già pensato il popolo fin dal giorno del suo martirio -, ma potrebbe invece dare impulso alla ricerca di verità e giustizia sul suo assassinio come sulle innumerevoli violazioni dei diritti umani commesse durante il conflitto armato interno dal 1981 al 1992.

È DA QUEL 24 MARZO DEL 1980 in cui Romero venne ucciso sull’altare – 24 ore dopo il suo celebre appello ai militari a porre fine alla repressione – che il popolo salvadoregno chiede, ininterrottamente, che sia fatta giustizia. E lo ha rivendicato ancora il 10 ottobre scorso, quando, con una grande marcia dalla piazza del Divino Salvador del Mundo al Palazzo di Giustizia di San Salvador, le organizzazioni dei diritti umani sono tornate a chiedere indagini esaustive, un processo equo, il giusto castigo dei responsabili dell’omicidio dell’arcivescovo: mandanti, esecutori e complici.

Una sfida la cui portata era risultata chiara già al primo giudice incaricato di seguire il caso, Atilio Ramírez Amaya, costretto a fuggire in Venezuela: «Si dice che telefonarono a casa sua e chiesero alla sua figlia adolescente di quale colore volesse la bara del padre», riferisce il cardinale Gregorio Rosa Chávez.

E NEPPURE L’ANNULLAMENTO da parte della Corte Suprema di Giustizia, il 13 luglio 2016, della Legge sull’Amnistia promulgata nel 1993 – alla cui ombra hanno potuto dormire sonni tranquilli tutti i responsabili dei crimini commessi durante la guerra civile – ha finora prodotto i frutti sperati.

EPPURE, DOPO IL RAPPORTO della Commissione della Verità del 1993, e poi, ancora, dopo quello della Commissione Interamericana dei Diritti Umani del 2000 e dopo il processo civile svoltosi a Fresno, in California, nel 2004 (in cui uno dei responsabili, l’ex capitano Álvaro Rafael Saravia, è stato condannato a versare ai familiari di Romero 10 milioni di dollari), ben poco resta da sapere sull’assassinio.
Ordinato dal maggiore Roberto d’Aubuisson, padre degli squadroni della morte e fondatore del partito di estrema destra Arena che ha governato il paese per vent’anni, l’omicidio era stato pianificato da Saravia insieme al capitano Eduardo Ávila, assassinato in circostanze misteriose nel 1994.

 

Gennaio 1979, Romero acclamato dalla folla a San Salvador

 

COME HA RIVELATO NEL 2011 il quotidiano salvadoregno Co Latin o, ricevendo l’informazione da fonti vicine ai circoli di D’Aubuisson, era stato Ávila, la mattina del 23 marzo, a segnalare a Saravia e a Mario Molina (figlio dell’allora presidente Arturo Armando Molina) l’annuncio della messa in ricordo della madre del proprietario del settimanale El Independiente, che Romero avrebbe celebrato nella cappella dell’ospedale della Divina Provvidenza. «L’occasione è questa», aveva esclamato Ávila, informandosi subito sul killer. «Non ti preoccupare – gli aveva risposto Molina -, a lui ci penso io». E la scelta era caduta su Marino Samayoa Acosta, sottosergente della seconda sezione della disciolta Guardia Nazionale e membro dello staff di sicurezza dell’allora presidente della Repubblica, di cui si sono perse completamente le tracce.

Ma già nel 1987 la testimonianza resa dall’autista di Saravia, Amado Garay Reyes – che oggi vive negli Stati Uniti, inserito nel programma di protezione dei testimoni –, aveva gettato luce sull’assassinio. Garay aveva ammesso che era stato lui a condurre il killer, che egli non conosceva, fino alla cappella della Divina Provvidenza, seguendo gli ordini di Saravia. Garay aveva sentito il rumore dello sparo, le grida. Quindi, tornando alla macchina, il killer gli aveva intimato, con voce tranquilla, di guidare con calma, senza fretta, finché, tornati alla residenza da dove erano partiti, non aveva fatto il saluto militare a Saravia, che stava fuori ad aspettare, dicendogli «missione compiuta».

QUANTO A SARAVIA, che vive nascosto, e in condizioni di povertà, in un imprecisato Paese «in cui si parla spagnolo», nel 2010 ha concesso una lunga e impressionante intervista a El Faro, riconoscendo la propria partecipazione al crimine («Morirò perseguitato da quanto è successo»). Era stato lui a consegnare l’auto che avrebbe trasportato Samayoa Acosta e ancora lui a versargli i soldi, prestati a D’Aubuisson da Eduardo Lemus O’Byrne, un noto imprenditore salvadoregno (che ha negato tutto).

Come ci ha spiegato l’avvocato di Tutela Legal Alejandro Díaz, membro di una delegazione di salvadoregni giunta a Roma in occasione della canonizzazione di Romero, qualcosa ha iniziato – molto lentamente – a muoversi dopo la dichiarazione di incostituzionalità della Legge di Amnistia. Doveva però passare ancora un altro anno prima che il Quarto Tribunale di istruzione di San Salvador, il 12 maggio del 2007, riaprisse ufficialmente il caso Romero. E neppure allora, ha precisato l’avvocato, «si sono mossi significativi passi avanti. Per questo Tutela Legal, la Concertación Romero e altre organizzazioni per la difesa dei diritti umani hanno marciato il 10 ottobre fino al Palazzo di Giustizia, sollecitando «una decisa svolta nel caso».

UN CASO ALTAMENTE SIMBOLICO, quello dell’arcivescovo, espressione dell’ampio martirologio latinoamericano, fatto di catechisti, animatori di comunità, dirigenti contadini, suore, preti e vescovi uccisi da regimi che si autoproclamavano «cattolici»: «Se non si ottiene giustizia nel caso di una figura come Romero, conosciuta e amata in tutto il mondo – ha sottolineato Alejandro Díaz – come si può sperare di risolvere i casi dei massacri, delle scomparse forzate, della violazione dei diritti di tanti uomini, donne, bambini e anziani anonimi?».

È quanto ha evidenziato anche Sofía Hernández dell’associazione Codefam (un comitato che riunisce i familiari delle vittime), che nel conflitto ha perso un marito, una figlia, due fratelli e due nipoti: «Se nel caso di Romero si farà giustizia, tutte le altre vittime potranno sperare di ottenerla. Da parte mia, lotterò contro l’impunità finché avrò fiato».