L’idea è quella di raccontare una parte della propria vita associata al proprio strumento. Suonando musiche contemporanee con quello strumento e intrattenendo il pubblico su come ci si è avvicinati a quelle musiche pensate per un certo strumento, il proprio. L’hanno avuta gli strumentisti del Parco della Musica Contemporanea Ensemble e hanno animato un ciclo di concerti sul tema: di flauto, percussioni, chitarra, chitarra elettrica, clarinetto, violino, clavicembalo, oboe, contrabbasso, viola. E, per tre puntate, pianoforte.
L’ultima serata, The piano in my life, è stata appannaggio di Oscar Pizzo, coordinatore del Pmce, direttore artistico della stagione Contemporanea all’Auditoriun romano. E, come si è capito, pianista. Una serata anzitutto piacevole. Tra amici. Pizzo ha raccontato un po’ della sua vita con la musica d’oggi, cominciando da quando è andato per la prima volta a Darmstadt a sentire concerti, a seguire lezioni e a scoprire musiche e interpreti che lasciavano il segno. Un appunto autobiografico e poi un brano musicale attinente. Magari due brani diversi allacciati, come, per esempio, Extensions 3 di Morton Feldman e cinque canzoni da Songbook di Giya Kancheli.
Questo Feldman del 1952 non è affatto neoweberniano (il legame con l’immenso viennese è comunque forte, ma chi non l’ha avuto tra gli eretici del ‘900, Cage compreso, e gli osservanti non li consideriamo proprio?). Feldmaniano al massimo: minimal, ripetitivo, intimo, ammaliante, astratto/estatico. Questo Kancheli che scrive tra il 1960 e il 1980 musiche per film, ci propone proprio ballate da night, romanticherie easy che forse nemmeno il Jarrett più «svenevole» si azzarderebbe. Niente male, al georgiano non manca la spregiudicatezza. Che abbiano in comune, questo Feldman e questo Kancheli, l’uso del colore in musica, come accenna Pizzo, non è argomento solido, ma in una serata tra amici non importa.
Gran pezzo (una novità) Telsin 4 di Tonino Battista. Secondo l’autore, che per un momento ha affiancato Pizzo nel ruolo di presentatore, è come «fare l’agopuntura al pianoforte». «Sembra che non succeda niente ma dopo si è rilassati». Il piano è leggermente «preparato», in più c’è un nastro di elettronica. I suoni sintetici vengono «dal nulla» e arrivano a onde discrete. Avvolgono i radi blocchi di suoni, distanziati temporalmente in modo irregolare, del pianoforte. Suoni che si orientano verso decise/mistiche dissonanze. Non è che «non succeda niente» in questo pezzo. È una seduta forse rilassante forse inquieta di agopuntura musicale.
Altra piccola medley proposta da Pizzo: Metamorphosis 2 di Philip Glass e una selezione dai The Time Curve Preludes di William Duckworth. Un noto Glass cantabile e struggente. L’autore suona spesso il brano in pubblico, è tutt’altro che un virtuoso, ma capisce che la semplicità del suo «notturno» evoca un mistero metropolitano. Quella di Pizzo, qui come in tutto il concerto, è stata più una «lettura» che un’interpretazione. Ha esposto nella serata un itinerario di scoperte e piaceri, ha lasciato da parte l’approfondimento e la ricerca di un guizzo personale. In questa scelta di Preludes, Duckworth non ha molto in comune con i minimalisti classici: il suo materiale è fatto di ostinati «barbarici» elaborati.
Bella pre-chiusura con l’Alvin Curran di For Cornelius. Pizzo ha raccontato l’origine del lavoro. Cornelius Cardew che una sera d’inverno del 1981 viene investito da un’auto, finisce ferito in un fosso, muore senza soccorsi. Curran che apprende la notizia della morte dell’amico, del compagno d’arme, e scrive di getto questo brano dolente e furioso. Ma Pizzo ha fatto un regalo speciale come bis: le ultime pagine di musica scritte da Cardew, The Red Flag Prelude. Un’assorta divagazione intorno a Bandiera rossa, versione inglese dell’inno sulle note di un motivo popolare ottocentesco tedesco. Così si è avuto un finale «militante».