Che lo nominassero era (quasi) scontato, Call Me by Your Name – in sala domani – appariva in tutti i pronostici dei giorni precedenti, anche quelli più autorevoli delle riviste dell’industria hollywoodiana («Variety»). Così è stato dopo un anno, tanto è passato dalla presentazione del film al Sundance 2017, di trionfi critici oltreoceano e in ogni festival dove è stato presentato (solo in Italia ancora non ha avuto un’uscita ufficiale) e plausi unanimi per la prima volta anche qui. Luca Guadagnino ha conquistato quattro candidature agli Oscar tra cui la più prestigiosa al miglior film – insieme a migliore attore protagonista, Timothée Chalamet, sceneggiatura non originale – di James Ivory, Guadagnino e Walter Fasano dal romanzo di André Aciman – migliore canzone originale, Mystery of Love di Sufjan Stevens.

 

 

 
Adesso non c’è che da aspettare la cerimonia degli Oscar (alla conduzione di nuovo Jimmy Kimmel) il 4 marzo – data per noi assai densa di interrogativi visto che coincide con le elezioni – ma possiamo subito dire che facciamo il tifo per lui. E non per nazionalismi italici anche perché come pochi Guadagnino esprime un cinema internazionale che guarda a modelli (nostrani) come quelli di Bertolucci più che alla commedia, e questo da sempre, dai suoi primissimi film, da Io sono l’amore a A Bigger Splash. Passando per i doc e i film saggio che toccano temi sensibilmente scoperti nel nostro immaginario come il confronto col colonialismo italiano e la guerra di conquista in Etiopia affrontati in Inconscio italiano, illuminandone ferocia, politiche, interessi economici, vuoti della storiografici. Una cartografia di precisione di cui in Europa sono capaci solo gli autori portoghesi che infatti continuano a essere riferimenti del cinema mondiale.

 

 

 
Guadagnino gira in inglese, con attori e produzioni internazionali. È una scelta – ma smettiamola però con l’inutile polemica del regista non abbastanza apprezzato in patria. Sono piaciuti meno qui i suoi film, almeno fino adesso, che altrove; certo si accordano male a una certa estetica due camere e cucina (meno che mai Suburra/Gomorra) pure se sono interni, tutte case magnifiche dove la macchina da presa scorrazza sontuosamente.

 

 

 
È più riuscito degli altri Call Me by Your Name? A me piacciono tutti, anche quelli coi «passi falsi» e le grandi ambizioni – che è sempre bene avere. Qui Guadagnino – in accordo perfetto coi suoi protagonisti, anche l’ignorato Armie Hammer – è più libero nel suo essere controllato, sceglie la strada del romanzo di formazione (ma tutti i suoi film lo sono in un certo modo) consensuale, che va verso la consapevolezza senza ribellioni o fratture se non quella, dolorosissima, della scoperta che i sentimenti possono essere messi sotto controllo, un limite inaccettabile nell’assoluto dei diciassette anni.

 

call-me-by-your-name

 

The Shape of Water, la fiaba liquida con doppio finale di Guillermo del Toro, Leone d’oro a Venezia, ha raccolto il numero più alto di nomination, tredici, tra cui miglior regista, film, attrice protagonista, la stupenda Sally Hawkins, sceneggiatura originale, montaggio, costumi. Otto le nomination per Dunkirk di Nolan e sette per il trionfatore ai Golden Globe Tre manifesti a Ebbing, Missouri di Martin McDonagh – anche questo in concorso a Venezia dove ha vinto il premio alla sceneggiatura
Paul Thomas Anderson ne ha ottenute sei con Phantom Thread (in sala il 22 febbraio) compresi film, attore protagonista, Daniel Day-Lewis (che ha dichiarato sarà la sua ultima interpretazione), e regista mentre Get Out tre, miglior regista,Jordan Peele, attore, Daniel Kalluuya e film.

 

 
Le nomination ci dicono essenzialmente due cose: la prima che il grande assente (come già ai Golden Globe) è Spielberg il cui  magnifico The Post – in sala il 1 febbraio – ha ricevuto solo due candidature: migliore attrice a Meryl Streep e miglior film. I componenti dell’Academy hanno dimenticato Tom Hanks ma soprattutto la regia che citando P.T Anderson: «Riesce a far danzare la macchina da presa in una stanza con dieci persone». Film politico e mai ideologico, capace per questo di restituire le urgenze del nostro tempo attraverso la lente del passato, e anticipare quanto il movimento iniziato dalla denuncia per molestie contro Weinstein ha voluto portare all’attenzione – la scena in cui Kay Graham-Streep scende le scale ignorata dai media maschili ma eroina di tutte le donne è emblematica pure se il film nasce prima di questo.

 

 
E a proposito. Me Too# e Time’s Up saranno i riferimenti «obbligati» per questi Oscar ma la presenza femminile si limita tra i registi alla sola Greta Gerwig per Lady Bird –  nominato pure per la migliore attrice protagonista Saoirse Ronan. Ignorati invece Kathryn Bigelow, prima regista a vincere un Oscar con The Hurt Locker, e il suo Detroit, troppo urticante persino nel clima di esaltazione del femminile l’immagine che restituisce dell’America riflessa nei riots di Detroit del 1967, una settimana di violenza cieca, polizia che spara contro qualsiasi cosa si muove.

ladybird1

 
Nella categoria dei film stranieri resiste Corpo e anima di Ildiko Enyedi, il più bello dell’anno che speriamo ce la faccia a conquistare la statuetta. E non è una questione di quote (peraltro è l’unica donna nella categoria): è che di fronte all’autoritarismo sbrigativo di alcuni suoi avversari (tipo Loveless) spalanca un universo di invenzione e sensibilità. Doti rare. Le stesse di una grande protagonista (e solitaria) della Nouvelle Vague, Agnès Varda nominata tra i documentari con Villages/Visages. Niente vittimismo per carità, solo la constatazione che la strada da fare è ancora lunga. Anche fuori dall’Academy