La maratona è stata come al solito interminabile (circa tre ore e mezza), e il kitsch non è mancato (a partire dall’apparizione del vicepresidente Joe Biden, in appoggio a un documentario sullo stupro nei campus universitari, nominato per la miglior canzone) ma –in confronto a quelli degli ultimi anni – l’88esimo Academy Awards è stato una boccata d’aria fresca. Forte di due nuovi produttori (David Hill e Reginald Hudlin), di un conduttore che ha preso in mano con il necessario spirito iconoclasta le controversie sulla diversità che hanno dominato la dirittura d’arrivo agli Oscar di quest’anno (e portato il newyorkese reverendo Al Sharpton in trasferta a Hollywood, con una manifestazione a pochi isolati dal Dolby Theater), la cerimonia di domenica sera è sembrata molto meno irrilevante e desueta del solito. Un po’ deve aver contribuito il panico gettato dagli attacchi e della minaccia di defezioni celebri pubblicizzati nelle scorse settimane, un po’ l’imprevedibilità di quello che avrebbe fatto Chris Rock, un po’ certi premi, primo tra tutti quello di miglior film a Spotlight, arrivato quando uno stava già mettendosi il cappotto per andare a casa e Iñárritu si preparava ad accettare la seconda statuetta, dopo quella di miglior regista. Grande favorito dai pronostici, The Revenant ha vinto anche gli Oscar per il migliore attore, andato a Leonardo DiCaprio, e quello per la miglior fotografia, a Emmanuel Lubezki (il terzo consecutivo –dopo Birdman e Gravity – un record nella storia dell’Oscar). Ma, oltre ad essere stato battuto da Spotlight per il miglior film, è stato surclassato anche in altre categorie da Mad Max: Fury Road, vincitore delle statuette di miglior montaggio, make-up, costumi, sonoro, missaggio sonoro e scenografia.

Diversamente dagli anni scorsi –in cui alle categorie tecniche venivano alternate quelle ritenute più audience friendly degli attori- gli annunci dei premi sono stati organizzati secondo l’evoluzione del processo di lavorazione di un film –dalla sceneggiatura in avanti. Secondo questa formula, l’en plein totalizzato da Mad Max, si è verificato in un crescendo progressivo che –oltre a mostrarci che i ranghi dell’industria del cinema australiano sono pieni di donne – ha fatto sembrare ancora più ingiusto che il settantunenne George Miller non prendesse anche il premio per la regia. Insieme al premio per la miglior sceneggiatura originale a Spotlight, il premio per la miglior sceneggiatura non originale conferito a The Big Short ha una certa giustezza poetica. Accettandolo, anche senza citarlo, il regista e co/sceneggiatore Adam McKay ha spezzato una lancia in favore di Bernie Sanders, invitando il pubblico a non votare per candidati che accettano finanziamenti dalle grandi corporation. Per il resto, le elezioni non sono entrate granché nella serata.

L’autoironia è un ingrediente fondamentale per rendere digeribile il rituale degli Oscar. E Chris Rock ha garantito una buona dose di satira nella pompa autocelebrativa dell’evento – per esempio con un montaggio di clip in cui attori afroamericani cercavano di inserirsi a forza nelle scene di alcuni dei film nominati (Whoopy Goldberg armata di scopa in Joy, lo stesso Rock in versione astronauta, in The Martian). Resi più veloci anche dalla possibilità di far correre dei nomi alla base dello schermo in modo da evitare troppe litanie, i ringraziamenti sono sembrati meno corporate del solito e quindi più sentiti. Leonardo Di Caprio ha incluso nei suoi la crisi ambientale e il genocidio degli indiani d’America. Iñárritu la diversità (anche se, per accelerare il suo speach troppo lungo, è partita la colonna sonora di Star Wars). Sam Smith, uno dei due compositori della miglior canzone (Writing’s on the Wall, dal film Spectre) ha dedicato la vittoria alla comunità lgbt.

Ma, sempre grazie alla regia e a Rock, il pc è stato abbastanza equilibrato dall’irriverenza. «Certo che Hollywood è razzista, come lo è una fraternity. Jamie Foxx non ha le stesse opportunità di Leo», ha detto ancora Rock. E ancora: «come ho detto al presidente Obama durante un fundrising in cui erano tutti bianchi: qui a Hollywood anche tra le migliori persone che uno possa trovare. Sono liberal!». Insieme all’Oscar «dovuto» a Leonardo DiCaprio, gli altri premi per la recitazione hanno puntato su attrici agli inizi della carriera, come Alicia Vikander (The Danish Girl) e Brie Larson, mamma priginiera in Room.

All’annuncio del miglior attore non protagonista, si è sentito nell’aria un piccolo «gulp» collettivo. Mark Rylance, spia sovietica nel film di Spielberg e non, come largamente anticipato, Sylvester Stallone è stato il vincitore.  Per il resto, i premi hanno rispettato la tabella delle previsioni, con Amy miglior documentario, Son of Saul miglior film straniero e Inside Out miglior film d’animazione. Hanno presentato l’ennesimo Oscar a un film Pixar il cowboy Woody e l’astronauta Buzz Lightyear, celebrando il ventesimo compleanno di Toy Story.