Per i fanatici della statuetta, quelli che fanno nottata in Italia come se fossero al Dolby Theatre di Los Angeles, c’è la diretta su Sky Cinema Oscar – a partire dalle 22.50 di domenica, sul canale 304 di Sky. Intanto la «febbre da Oscar» cresce in vista dell’appuntamento di domani, si organizzano gruppi d’ascolto e eventi di visione collettiva, le scommesse impazzano e sui giornali e in rete non si parla d’altro da giorni – non solo in Italia, in tutto il mondo. Quest’anno però da noi la normale eccitazione è moltiplicata sull’onda della nomination – nella categoria miglior film straniero – alla Grande Bellezza, che ormai almeno qui (ma sembra anche in America, vedi pezzo sopra) viene dato per sicuro vincitore. Al fascino vintage di Jep Gambardella, delle sue giacche sgargianti e delle sue massime di pensiero e vita disseminate tra le voluttuose rovine barocche di Roma, cosa possono opporre – ai nostri occhi – film come Omar del regista palestinese Hany Abu-Assad o L’image manquante del regista cambogiano Rithy Pahn? A parte un ristretto pubblico di cinefili infatti nessuno sa chi siano, nessuno ha mai visto i loro film, non sono mai stati in tivvù dunque non esistono. E forse è per questo che alla faccia della scaramanzia, i festeggiamenti per l’Oscar italiano sembrano già iniziati. Del resto il nostro strabico mercato rifiuta le sale anche a quei film italiani che sono davvero un segnale importante per il nostro cinema a livello internazionale – pensiamo alla fatica che fa a trovare sale Tir di Alberto Fasulo nonostante il primo premio al festival di Roma.

E invece Rithy Pahn è un regista conosciuto e molto stimato nel mondo da anni, e questo L’image manquante (per chi ne volesse sapere di più è in libreria per Feltrinelli L’eliminazione, libro autobiografico del regista cambogiano da cui il film trae spunto) è una riflessione potente sul senso delle immagini e sulla rappresentazione della storia e della memoria. Si racconta in prima persona del massacro di milioni di cambogiani messo in atto dal regime di Pol Pot, e non in astratto, appunto, ma nell’esperienza personale del regista. Che ragazzino quando i Khmer Rossi entrano nella capitale, Phnon Pehn, è deportato insieme a tutta la famiglia nella giungla dove patirà fame, violenze mentali e fisiche perdendo uno dopo l’altro i suoi cari… Ma siccome ciò che manca a questa storia – a meno di non ricostruirne il set nella «finzione» – sono proprio le immagini – nel libro la sua è una narrazione orale seppure estremamente visiva – Rithy Pahn rappresenta se stesso, la sua casa, i genitori, i Khmer rossi con statuine di legno. Lasciando spazio a tratti agli archivi cambogiani girati dagli stessi Khmer, che però tagliano fuori dall’inquadratura tutti i cambogiani eliminati.

Anche Hany Abu-Assad è un regista conosciuto nel mondo, e Omar è un film forte, che trasforma la rappresentazione del conflitto tra Israele e Palestina in uno stato mentale dell’assurdo quasi beckettiano.

Domani notte sapremo, ma lunedì mattina, qualunque sarà il verdetto, si continuerà sempre e comunque a parlare del cortile di casa nostra. Nel cinema come in tanto altro.