L’Oscar 2019 è già l’Oscar della prima volta. Sarà infatti la prima volta senza un presentatore ufficiale dopo il «caso» Kevin Hart costretto alle dimissioni per vecchi messaggi social omofobi e «sostituito» da una serie di personalità chiamate a consegnare i singoli premi – l’ultimo nome a essere reso noto è quello di Diego Luna che darà la statuetta al miglior film. Tra gli altri ricordiamo Samuel L. Jackson, Michael Keaton, Laura Dern e Javier Bardem. Sarà la prima volta di un cinecomic – targato Marvel, dunque Disney – : Black Panther di Ryan Coogler.

E sarà soprattutto la prima volta di Netflix – a eccezione di una nomination a miglior documentario nel 2016 con Winter on Fire: Ukraine’s Fight for Freedom – il colosso dello streaming che arriva alla serata dopo infinite polemiche sul rapporto assai controverso – e per nulla risolto – con la sala con ben dieci nomination a Roma di Alfonso Cuaròn, il titolo superfavorito, e treai fratelli Coen per The Ballad of Buster Scruggs, quest’ultimo tra l’altro in numerosi paesi compreso il nostro mai arrivato in sala.

NON C’È troppo da stupirsi, il business è il business, e Hollywood aveva già deciso di accogliere a braccia aperte la piattaforma visto che all’indomani delle nomination – e dei trionfi di Roma ai Golden Globes, seppure questi assegnati dalla stampa straniera – ha annunciato che Netflix entrava a far parte della Motion Picture Association of America, una decisione che ne riconosce a tutti gli effetti lo statuto di Studio. Senza dimenticare che il suo diretto concorrente, La favorita del regista greco Yorgos Lanthimos, è targato Fox Searchlight passata sotto il controllo della Disney che sta preparando un progetto enorme di streaming e sala.

Netflix per il suo esaltante «upgrade» ha scommesso sul film giusto e per spingerlo ha usato le strategie abituali di tutti gli studios, una campagna promozionale serrata, che l’ha portata persino a allargare di qualche settimana la finestra tra sala e piattaforma, affidata a Lisa Taback – ora sotto contratto fisso con la sua LT-LA – cresciuta alla Miramax di Weinstein e artefice delle vittorie tra gli altri di Il paziente inglese e di The Artist. Basta per questo scorrere i pronostici delle statuette che danno il film di Alfonso Cuarón – già premio Oscar con Gravity – in testa: «Variety» lo indica vincitore nelle categorie miglior regia, fotografia (sempre Cuarón) e miglior film straniero. Ancora più netto il «New York Times» che consegna a Roma le statuette per miglior film, regia, film straniero e fotografia.

AL DI LÀ degli entusiasmi e dei pareri (critici) sul film le domande poste dalla realtà di Netflix rimangono senza risposta. Sulla questione si è espresso molto criticamente qualche giorno fa Steven Spielberg: «Spero che tutti noi possiamo continuare a credere che il nostro più grande contributo come registi è quello di dare al pubblico l’esperienza di un film di sala», ha dichiarato in un convegno della Cinema Audio Society’s CAS Awards. È chiaro che il problema sussiste ed è estremamente serio; gli sviluppi del rapporto tra Netflix e la sala, compreso l’ingresso della piattaforma tra gli studios, sono incerti e – anche per questo i singoli paesi compreso il nostro dovrebbero al più presto mettere a punto una legislazione chiara e dettagliata.

E come è stato dimostrato da Roma non basta ignorare la presenza di Netflix o erigere le barricate – modello festival di Cannes lo scorso anno – visto che alla piattaforma sono approdati ora registi come Scorsese il cui nuovo film, The Irishman, è appunto targato Netflix.
Tutto il resto invece segue il copione abituale. Dopo l’anno del #MeToo nelle nomination non c’è neppure una regista donna, un dato che prova quanto la disparità sia nelle strutture e certo non possa essere confusa con le censure esercitate verso questo o quell’altro attore e regista, le quali sembrano piuttosto offuscare e mettere a tacere le reali contraddizioni del sistema.

Tra le nomination ci sono assenze ingiustificabili come Suspiria di Luca Guadagnino, visionaria immersione nel cinema e nelle sue scommesse, di cui le cinquine hanno ignorato persino la colonna sonora (magnifica da sentire in loop infinite volte) di Thom Yorke. O negli attori manca il sofferentissimo Ethan Hawke di First Reformed, un altro film troppo «stridente» per incontrare i gusti un po’ morbidi delle nomination – comunque concorre nella categoria migliore sceneggiatura – che quest’anno sembrano di nuovo premiare un cinema di «impegno» ma sempre conciliante.
In attesa della serata di domenica al Dolby Theatre di Los Angeles, ecco i nostri Oscar.

A STAR IS BORN
Certo ci sono La favorita e Roma che sono due film interessanti, a loro modo riusciti. Ma A Star is Born (nonostante una seconda parte meno bella) apre gli spazi, dà il senso degli spazi, li fa trepidare attraverso una luce e un odore limpidi, primaverili, che restano anche alla fine, nella fine.
Luigi Abiusi

BLACKkKLANSMAN
Sarebbe la prima volta – e già troppo tardi – per Spike Lee e un suo film, quindi l’augurio è che l’Oscar vada al suo BlackKklansman, e non solo per fare ammenda di un ritardo comprensibile solo alla luce di un non troppo velato razzismo, ma anche perché è un film bello e orgogliosamente militante, che fa i conti con la Storia di intolleranza degli Usa – che arriva fino a oggi.
Giovanna Branca

GREEN BOOK
Contano i colori: due film neri, finalmente, candidati (Black Panther e BlacKkKlansman) ma è il verde di Green Book quello da premiare. Anche qui una storia di razzismo, con due interpreti sontuosi il bianco e volgare italoamericano Viggo Mortensen e il nero raffinato afroamericano Mahershala Ali, guidati on the road da Peter Farrelly. Antonello Catacchio 

ROMA
Scelgo Roma, ma se alla fine vincesse Black Panther non mi dispiacerebbe troppo. Sono due film diversissimi tra loro ma anche vicini. Intanto l’autobiografia -esplicita in Cuaron, segreta in Coogler. Entrambi oggetti che pensano «in grande», sono i due titoli che più hanno scosso lo status quo dell’Oscar di quest’anno. Perché Roma mi piace di più? Perché è una scommessa più difficile; il suo Messico turbato mi ha ricordato l’Italia di quegli anni; e quando da una Citroen siamo passate a una Cinquecento.
Giulia D’Agnolo Vallan

VICE
La conferma di Adam McKay come uno dei più solidi e brillanti narratori d’America. Antimperialista, anti-establishment, il suo sguardo sul «sogno» a stelle e strisce è uno dei più lucidi e disincantati del decennio. Vorticoso, corrosivo, frammentario, sincopato. Cinema civile sì, ma con leggerezza e ironia.
Beatrice Fiorentino

LA FAVORITA
Per la capacità di raccontare le umane vicende, senza attribuirne un valore morale, e le dinamiche di potere, tra chi possiede uno sguardo ampio, ma è incapace di comprendere ciò che è vicino, e chi coltiva il proprio perverso interesse senza curarsi del mondo. Un film esemplare sulla conflittualità nel mondo della doxa.
Mazzino Montinari

BLACK PANTHER
In ogni caso, l’Oscar sarà letto come un dato politico. Per cui sarebbe meglio se vincesse un film da Oscar, ma solido, come A Star is Born di Bradley Cooper (l’unico che in grado di fare un film di Hal Ashby o di Warren Beatty oggi). Non accadrà. Allora tanto vale che sia Black Panther cosa che potrebbe provocare un vero e proprio terremoto merceologico e politico, riscattando la nicchia plurimiliardaria dei cinecomix.
Giona A. Nazzaro

BLACKkKLANSMAN
Non è forse lo Spike Lee più agguerrito o sperimentale ma poco importa. Il regista fa sua la «lezione» di Malcolm X: «Con ogni mezzo necessario» in una sintesi perfetta di spettacolarità e politica (secondo anche le migliori energie della amatissima blaxploitation) per smascherare il razzismo (di classe) dall’America degli anni ’70 fino a quella trumpiana di oggi. Il risultato è un film «popolare» che dissemina la sua potenza rivoluzionaria nel piacere dei fotogrammi. Un magnifico gesto di cinema immerso nel mondo.    Cristina Piccino

BOHEMIAN RHAPSODY
La scelta cade sul film di Bryan Singer con il seguente criterio: è il film che ha fatto scrivere, o che ha ispirato se volete, la migliore critica che mi è capitato di leggere quest’anno. Penso al pezzo di Raphaël Nieuwjaer Après le temps pubblicato dalla gloriosa rivista on line «debordements.fr».
Eugenio Renzi

ROMA
È il film da Oscar per la perfetta costruzione dei vari livelli: amorevole sguardo dagli inoffensivi alloggi della servitù punta l’attenzione sulle differenze di classe ancora presenti in tutti i paesi latini e diventa infine pesante atto di accusa sulle ingerenze della Cia e dei corpi speciali addestrati negli Usa in azione nel continente latino. Sotto forma di affettuoso racconto di gioventù colpisce a fondo e senza pietà.
Silvana Silvestri