Scrivetevi l’indirizzo. All’8360 di Melrose Avenue, a West Hollywood vicino a King’s Road, Ma Maison è il ristorante più in voga della città, dove una volta alla settimana Orson Welles va a pranzo con Henry Jaglom. Almeno dalla fine degli anni Settanta al fatale 10 ottobre 1985, quando il grande regista è stroncato da un infarto nella sua casa di Hollywood. Si erano incontrati nel ’71 sul set di Un posto tranquillo, l’esordio del giovane regista-produttore, dove Orson impersona l’illusionista che svela il segreto della vita alla bellissima Tuesday Weld, mentre si sentono in sottofondo le note immortali di Edith Piaf, Charles Trenet, Dooley Wilson. Quando si ritrovano qualche tempo dopo – Jaglom ha quasi quarant’ anni, Welles è sui sessantacinque – scatta la scintilla. Ammaliato dalla personalità del regista di Quarto potere, Henry ne diventa il confessore, il produttore, l’agente, riuscendo a contagiare con il suo entusiasmo il Grande Sconfitto tenuto lontano dagli Studios, che in un soprassalto di iperattivismo moltiplica i progetti e le partecipazioni tv. All’inizio dell‘83 è lo stesso Orson che gli chiede di registrare le loro conversazioni al ristorante. La quarantina di nastri, conservati in una scatola da scarpe, saranno sbobinati e trascritti soltanto una trentina di anni dopo. Il libro che ne ricava Peter Biskind, montando il caotico materiale (A pranzo con Orson. Conversazioni tra Henry Jaglom e Orson Welles, traduzione di Mariagrazia Gini, Milano, Adelphi, pp. 340, euro 13,00), è la cronaca degli ultimi tre anni di vita di Welles, la testimonianza del regista su se stesso e il mondo del cinema che aveva attraversato. Una testimonianza sorprendente, in cui il mago indossa una dopo l’altra tutte le maschere del suo repertorio con la verve del grande affabulatore, l’incisività del battutista attento alla parola, suscitando immancabilmente la risata o la commozione.

CERTO, la giungla hollywoodiana è vista soprattutto nel segno della cattiveria, sulfurea e impietosa. Le vittime preferite sono gli attori, che animano un gran numero di aneddoti. La bestia nera è Spencer Tracy, assolutamente insopportabile nelle tante sdolcinate commedie con Katharine Hepburn. Non salva nemmeno una delle performance di tutta la sua lunga carriera, con l’eccezione di Vincitori e vinti, peraltro un film non eccelso. Sta a sé il tormentone che riguarda Larry, e cioè Laurence Olivier, del quale trova il modo di dire peste e corna: «Larry è un beota – sul serio. L’intelligenza è un handicap, per un attore. Perché se sei intelligente non sei emotivo, ma cerebrale. Il tipo cerebrale può essere un grande attore, ma è più difficile». Non andiamo meglio con le attrici, a cominciare da Irene Dunne: «Era una beghina, tanto una brava cattolica del piffero che mi veniva voglia di prenderla a calci. Così virtuosa, sempre a capitanare gruppi pro-censura. Una Jeanette McDonald che non sa cantare. E come attrice la detestavo. Faceva la gran dama, ma sentivo che non ci sarebbe stata nessuna vibrazione fra di noi». Carole Lombard, invece,«era molto intelligente, più di tutti i registi con cui lavorò. Le belle idee erano tutte sue». Clark Gable , suo marito, non lo era altrettanto, ma Orson andava d’accordo con quel «simpatico fustacchione». Se Marlene Dietrich è tra le preferite in assoluto, spassosissima quando suona la sega negli spettacoli per le truppe. Joan Fontaine – come la sorella Olivia de Havilland – è decisamente nella lista nera. Nel ’43 erano stati insieme sul set di La porta proibita, e aveva capito subito che era: «la solita pessima attrice con quattro intonazioni, due espressioni, e fine».

ZERO IN CONDOTTA anche per Ingrid Bergman: «Non è un’attrice. È già tanto se porta a casa una scena». Bocciato senza esitazioni Humphrey Bogart: «Era di seconda categoria. Davvero di seconda. Aveva una personalità affascinante che catturava le fantasie del mondo intero, ma non fece una buona interpretazione in tutta la sua vita». Come la mettiamo allora con Casablanca? Il capolavoro del cinema-spettacolo, un autentico rendez-vous di stereotipi, a Orson piaceva moltissimo: «I protagonisti hanno avuto una tremenda fortuna, perché andavano avanti alla giornata, recitavano senza sapere cosa sarebbe successo. Non sapevano con chi sarebbe finita lei, con Laszlo o con Rick». L’eroe antifascista doveva essere Paul Henreid, un attore intelligentissimo. Ma sullo schermo scompare davanti a Bogart, che è solo il padrone del ristorante, un ruolo di secondo piano. Scherzi del divismo. Né Ingrid Bergman, né Humphrey Bogart erano infatti grandi attori, ma piuttosto dei divi. Ancora più clamoroso il caso di Gary Cooper: «È un grande divo: una grande creazione cinematografica. Non dobbiamo giudicarli come attori, sono le creature di cui a un certo punto ci innamoriamo. Rispetto alla recitazione, il divo è un pianeta a sé».
Come si fa a resistere a La vita è meravigliosa? «Melassa. Puro Norman Rockwell dall’inizio alla fine. Ma non c’è modo di odiare quel film». Orson si confessa un grande fan di Capra, con una sola eccezione: «L’unico film veramente brutto di Frank è Orizzonte perduto. È terribile. Assurdo! Mi sbellicavo dalle risate! Vengono tenuti a Shangri-La, in quella specie di country club orientale». Su Alfred Hitchcock spara a zero senza pietà, salva solo i film del periodo inglese, soprattutto Il club dei trentanove: «Perdio, che capolavoro. Avevano un lieve fascino esotico perché non conoscevamo bene gli attori. Ma il culto di Hitchcock non l’ho mai capito». Secondo lui, La finestra sul cortile è un film completamente idiota, e La donna che visse due volte ancora peggio. Cecil B. DeMille, con le sue anticaglie pseudostoriche, gli sembra l’inventore del saluto fascista. Anche con John Ford – che gli è simpatico per le sbornie colossali che si prende una volta finito il film – ci va giù pesante, sparlando persino di Sentieri selvaggi. Se non tutti i titoli di Jean Renoir lo convincono , è un fan assoluto di La grande illusione: «Forse uno dei tre o quattro migliori film di tutti i tempi. Piango ogni volta che lo vedo». E i produttori? Certo, Harry Cohn, il patron della Columbia, è il tipico hollywoodiano con il pelo sullo stomaco, ma Louis B. Mayer, il capo della Metro, è ignobile: «Bigotto, untuoso, con la bandiera americana sempre in mano. Quando aveva bisogno di usare le maniere forti chiamava la Purple Gang, che mandava in città i suoi picchiatori».

IL PEGGIORE di tutti è però Irving Thalberg: «Fu il più grande malfattore della storia di Hollywood. Prima di lui il produttore interveniva il minimo, solo se necessario. Ma lui stava dietro una scrivania, non si occupava dei conti, né dell’azienda, doveva per forza essere un creativo, e mettere bocca su tutto. Con lui il regista era soltanto un impiegato che doveva dire azione o stop».
Sempre ridondante, Orson misura le parole solo quando si tratta del Presidente Roosevelt, che ha incontrato più volte alla Casa Bianca: «Con me si sentiva libero. Non c’era bisogno di manipolarmi. Mi diceva sempre: Io e lei siamo i due più grandi attori d’America». Il rimpianto per quel periodo non lo abbandona mai: «Gli anni di Roosevelt furono fantastici. Era un momento felice, nonostante la sofferenza di tanti. La gente aveva fame, ma lui fece cooperare tutta la nazione. In America il movimento dei lavoratori divenne qualcosa di meraviglioso. Non si rompeva mai un picchetto».