A 20 dollari al barile è la serrata di un mondo, quello del petrolio, per la guerra dei prezzi tra Arabia saudita e Russia e per il calo drastico della domanda internazionale depressa dalla crisi pandemica ed economica: in poche settimane da 100milioni di barili al giorno di consumi si è passati a 75, il 20% in meno.

All’orizzonte, mentre un Trump disorientato e sull’orlo di una crisi impensabile ha telefonato ieri a Putin, si profila la rovina delle società petrolifere americane dello shale oil ma soprattutto di interi popoli e nazioni che campano sulle esportazioni di oro nero. Il mondo arabo e il Golfo sono in tilt, l’Iran ha l’acqua alla gola per le sanzioni Usa e in Nordafrica, dall’Egitto all’Algeria, alla Tunisia, si profila una recessione senza precedenti, accompagnata da conflitti che non si fermano e da crisi di legittimità dei regimi che devono almeno far mangiare la loro gente. Una destabilizzazione che investe Iraq, Siria, Iran, Libano, Giordania e milioni di profughi che vagano dentro e ai margini di stati sempre più poveri e ora anche devastati dall’epidemia del coronavirus.

Questo è un mondo che più o meno direttamente dipende, per far quadrare i conti e sopravvivere, dall’oro nero e dagli investimenti legati all’industria petrolifera. Se i Paesi del Golfo, i più ricchi, stringono i cordoni della borsa anche per gli altri le prospettive sono plumbee. Basti pensare che il Qatar ha appena donato 150 milioni di dollari a Gaza.

Neanche troppo sullo sfondo ci sono gli Stati uniti che non rinunciano al regime change a Teheran, epicentro mediorientale del Covid-19, mentre la Turchia regola i conti con i curdi uccidendo Nazife Bilen, la donna più alta in grado nelle fila dei combattenti del Pkk: perché le crisi, anche le peggiori, non fermano le guerre e neppure i volonterosi carnefici di popoli come Erdogan che è sempre in battaglia anche contro Assad nell’inferno umanitario di Idlib.

Succede così quello che non era accaduto con la Grande Depressione del 1929: essere pagati per portare via il petrolio in eccedenza. Non si era mai visto. I produttori non sanno dove stoccarlo e per questo alcuni Paesi e diverse multinazionali hanno cominciato a chiudere i pozzi e pure le raffinerie. Quando la crisi da coronavirus finirà potrebbe anche accadere il contrario: che non ci sarà abbastanza oro nero sui mercati.

La guerra del petrolio è stata innescata dal gran rifiuto della Russia di tagliare la produzione come aveva chiesto l’Arabia saudita all’”Opec +1″, l’accordo dello storico Cartello petrolifero con Mosca che finora aveva tenuto a galla le quotazioni.Trump adesso si aggrappa a Putin per far rialzare i prezzi dopo avere convinto il “principe nero” Mohammed bin Salman a tagliare la produzione. Mosca pur di non cedere e mettere fuori mercato le società Usa, gravate dai debiti, è pronta a bruciare le riserve del Fondo sovrano russo (150 miliardi di dollari) per coprire le entrate mancate. In palio c’è la leadership del mercato dell’energia, non solo quello del petrolio ma anche del gas dove la Russia domina le forniture in Europa sia direttamente che con l’hub della Turchia di Erdogan.

Ecco perché la battaglia ha risvolti strategici formidabili: si tratta anche influenzare gli eventi in una vasta area dal Mediterraneo al Medio oriente al Nordafrica. Ma anche lo zar potrebbe ripensarci: il gioco al ribasso può diventare una partita mortale.

Le compagnie americane dello shale oil sono in coma. Avevano cominciato la loro ascesa nel 2008 quando il costo del barile flirtava con quota 150 dollari, un’enormità che aveva spinto le società a investire a raffica nell’innovazione ma anche a indebitarsi. Già erano entrate in difficoltà nel 2016 quando era cominciato il calo del greggio e ora non sanno come ripagare i debiti, i loro titoli ormai sono quasi spazzatura. Da allora nel settore ci sono stati dozzine di fallimenti con debiti oltre i 120 miliardi di dollari.

Sono lacrime e sangue per tutti. Gli effetti dei ribassi possono essere prevedibili dal punto di vista economico ma assai più oscuri da quello strategico: se la situazione dovesse perdurare nel tempo i bilanci di paesi produttori, già in difficoltà per motivi interni e internazionali – come l’Iran sotto embargo, l’Algeria in una fase di transizione assai critica, l’Iraq delle rivolte e la Libia strangolata dalla guerra civile – possono subire colpi fatali. In questi Paesi il petrolio paga tutto o quasi: dal pane sulla tavola della gente comune ai ricatti di milizie che nessuno tiene a freno.