Per capire come si è affacciata alla mente di Ornette Coleman l’idea di una musica libera, di un jazz libero, idea che poi avrebbe preso forma e gli avrebbe fatto conseguire la patente di inventore del free-jazz, uno dei vari inventori a dire il vero, ma il più nominato per via del titolo del suo disco in doppio quartetto del 1960, Free Jazz appunto, è interessante leggere quello che ha detto in una intervista al critico A. B. Spellman. L’anno è il 1948 e il diciottenne sax contraltista suona nell’orchestra da ballo di Red Connors in un locale per soli bianchi di Fort Worth, la città del Texas dove è nato.

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«Una sera stavo suonando Stardust… e mi pigliava male: sentivo che sulle stesse armonie avrei potuto suonare tante di quelle note… La gente pensava solo a ballare e io, allora, non so cosa mi ha preso, ho cominciato a suonare quello che mi pareva sulle armonie, senza nemmeno sfiorare la melodia… Ho cominciato allora a esplorare altre possibilità di suonare senza seguire binari prefissati in termini di sequenze armoniche o accordi».

Da quello che si arguisce quella sera Coleman improvvisava semplicemente sulle armonie del brano come avevano fatto legioni di jazzisti prima di lui. Ma è sintomatico che lui dica «non so cosa mi ha preso» e «suonare senza seguire binari prefissati». Probabile che il demone di uscire dagli schemi del jazz disciplinare avesse già cominciato a possederlo. Verso la fine degli anni ’50, dopo varie tournée negli States con orchestre di rhythm’n’blues e dopo un impiego a Los Angeles come addetto all’ascensore, periodo quest’ultimo durante il quale studia teoria e comincia a formulare il suo personale idioma jazzistico, il demone è entrato completamente in lui e ci si è trovato comodo. Escono dischi i cui titoli sono tutto un programma: Tomorrow is the Question, The Shape of Jazz to Come. 

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Adesso che è morto per un attacco cardiaco ci rimangono davvero pochi padri viventi del free jazz. Cecil Taylor è il più importante, è un po’ male in arnese e nelle ultimissime esibizioni ha mostrato un curioso neo-moderatismo e poca voglia di sfrenate esplorazioni «senza rete» sulla tastiera. Invece Coleman, anche lui malfermo sulle gambe, negli ultimi concerti che abbiamo ascoltato è sempre stato vivacissimo e avanzatissimo musicalmente. Ma a suo tempo Cecil Taylor sì che aveva anticipato le scelte rivoluzionarie di Coleman. Già a partire dal 1954 la sua musica infrangeva le regole tonali e si dispiegava secondo distribuzioni delle parti nel ritmo assolutamente irregolari. Anzi, la rottura di Taylor con le strutture del jazz canonico era più radicale di quella ornettiana di là da venire.

Ma torniamo al 1959. Agosto. Coleman e il trombettista Don Cherry, ormai suo partner in importanti lavori come la registrazione dell’album Tomorrow is the Question tra il gennaio e il marzo di quell’anno – basta ascoltare la ballad Lorraine, con i californiani Red Mitchell e Shelly Manne al contrabbasso e alla batteria per accorgersi delle propensioni puntilliste avantgarde dei due strumentisti a fiato -, frequentano nell’estate la School of Jazz di Lenox, Massachusetts, diretta da John Lewis, il baroccheggiante leader del Modern Jazz Quartet.

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Baroccheggiante ma acuto e di mente aperta. Ecco che cosa dice a una rivista italiana dell’epoca, Jazz di ieri e di oggi, di cui si è persa la memoria: «Ci sono due giovani che ho conosciuto in California, un sassofonista contralto, Ornette Coleman, e un trombettista, Don Cherry. Non ho mai sentito niente di simile… Non somigliano a nessun gruppo ma ancora non mi spiego bene di che cosa si tratti…».

Si tratta della musica che Ornette Coleman, il pensatore e l’inventore razionale tra i due, ha maturato in modo quasi miracoloso se si tiene conto di una lunga frustrante gavetta in giro per l’America con orchestre commerciali. Loro due suonano seguendo non il giro di accordi ma le libere successioni di linee melodiche che si presentano alla loro intuizione. Sulla base di temi firmati spesso da Coleman che sono, in verità, tutt’altro che simili a quelli, non-temi di solito, atonali e senza misura, che un Cecil Taylor aveva da tempo fatto ascoltare. Sono vere canzoni, se vogliamo, la celebre Lonely Woman ne è un esempio (quante volte la suonerà Ornette e in quanti modi sempre nuovi, sempre emozionanti, sempre alla scoperta di qualcosa, della vita nuova in musica!).

Il gusto di Coleman per la melodia, anche cantabile, è presente nelle sue opere del tempo sia nelle parti tematiche, ben architettate e conchiuse, sia nelle parti dei suoi assoli, ovviamente assai più «informali». Chiaro che questo gusto è strettamemte coniugato alle impennate o alle deviazioni impreviste della successione di melodie (tendenzialmente molto consequenziale) e all’abbinamento di suoni «sporchi», materici, molto frequenti, con suoni più limpidi e persino dolci. Ma è questa la rivoluzione di Coleman, lui è il meno radicale dal punto di vista strutturale tra i grandi del free jazz.

https://youtu.be/QSmYTc1Jv7w

Quando troviamo un Ornette Coleman estremo, sensibile a tutte le esperienze delle avanguardie anche «colte» del ‘900? Quando, nel corso degli anni ’60 ma un po’ sempre nella sua carriera, imbraccia il violino o soffia nella pocket trumpet. Ecco allora i puri rumorismi, ecco le note isolate appese al vuoto, ecco le sequenze che possono far impallidire i più audaci improvvisatori totali dell’Europa, i Derek Bailey, gli Evan Parker, i Peter Brötzmann. Invece la sua passione per la melodia cantabile, ma stavolta intrisa di blues e di funk, torna in primo piano nei lavori realizzati nella fase «free funk», la sua fase elettrica che lo mette in compagnia, ma non molto in sintonia quanto a modi stilistici, con Miles Davis.

 

Sono gli anni ’70 e ’80, sono gli anni di album memorabili con il gruppo Prime Time, Dancing in Your Heads (1976), Body Meta (1976), Of Human Feelings (1982). Certo, qui le parti di improvvisazione ampia sono limitate, Coleman si limita a giocare passionalmente con gli scheletrici schemi di base. Ma il pathos è enorme, basta ascoltare Voice Poetry, il brano che apre Body Meta, per goderne.