«Il carcere è un ozio senza riposo dove le cose facili sono rese difficili da cose inutili». È semplicemente una scritta che si trova spesso sulle mura dei penitenziari, ma costituisce uno dei due primati del ministro di Giustizia, Andrea Orlando. Difficile, infatti, ricordare un Guardasigilli che fosse tanto sensibile ai graffiti sui muri: «Una frase eloquente che mi ha indotto a riflettere. Una frase che mi ha condizionato e spinto ad avviare il percorso che ci ha portato sino qui», ha detto ieri il ministro Orlando aprendo, nell’Auditorium del carcere romano di Rebibbia, la due giorni che conclude gli «Stati generali dell’esecuzione penale». I primi mai tenuti in Italia: e questo è il secondo primato.

A sottolineare il carattere «assolutamente inedito» dell’iniziativa, come ha fatto notare anche il capo del Dap Santi Consolo, è stata la presenza del capo dello Stato, Sergio Mattarella, che appena varcata la soglia del Nuovo complesso di Rebibbia è stato accolto da un lungo e caloroso applauso dei detenuti presenti. «Grazie di essere qui», gli hanno urlato, e il presidente si è fermato qualche istante a stringere mani e a ricambiare i saluti.

Si tratta dell’evento conclusivo di un percorso di approfondimento e analisi durato circa un anno, svolto da oltre 200 esperti di varia formazione e provenienza che hanno lavorato, coordinati dal giurista Glauco Giostra, ordinario di Diritto penale alla Sapienza, attorno a 18 tavoli tematici. Dopo la cerimonia di ieri, alla presenza di tante autorità e alte cariche dello Stato, i lavori a Rebibbia proseguiranno oggi con tavole rotonde che affrontano i principali nodi del sistema penitenziario italiano e danno conto del documento conclusivo redatto con i contributi dei 18 tavoli.

Gli esperti – che non significa solo magistrati, giuristi, medici, poliziotti, avvocati, psicologi e educatori, ma anche detenuti, garanti, volontari, architetti, sportivi, scrittori e attori – hanno infatti tracciato in questo anno le linee guida di una nuova e moderna esecuzione penale, disegnando un modello di carcere che fosse in linea con il dettato costituzionale e gli standard fissati dal Consiglio d’Europa, e che costituisse – come vorrebbe il ministro Orlando – il cuore del disegno di legge delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario da presentare in Parlamento.

Una riforma necessaria perché tutto è cambiato nella società italiana – e dunque nel carcere – dal 1975 (anno in cui il legislatore rimise mano al sistema fortemente carcerocentrico dell’esecuzione penale scritto da Alfredo Rocco nel 1931) ad oggi. «L’attuale “utenza” – ha riferito il professor Glauco Giostra – è composta per il 30% da stranieri, persone di lingua, cultura e religione diverse e “lontane”, e per questo più degli altri esposti alla emarginazione, ghettizzazione e al rischio di radicalizzazione».

Una riforma resasi poi impellente dopo che l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani per trattamento inumano e degradante, quando nelle celle dei 195 penitenziari italiani erano recluse circa 70 mila persone. Oggi quel tasso di sovraffollamento si è ridotto ma è ancora sopra il limite, «al 105%», ha certificato ieri la Commissaria europea per la Giustizia Vera Jurová che ha riferito di una condizione simile a quella di «oltre la metà dei 28 Stati membri dell’Ue». Una situazione, questa, che è di ostacolo agli strumenti di mutuo riconoscimento dell’Ue, come il mandato di arresto europeo e il trasferimento dei detenuti nei rispettivi Paesi d’origine. Secondo il sindacato di polizia penitenziaria Sappe che ha preso parte agli Stati generali, al 31 marzo scorso i detenuti italiani erano «ben 53.495, comunque 4 mila in più rispetto alla capienza regolamentare fissata dal Dap in 49.480 posti, conteggiando tra questi anche sezioni detentive chiuse e in ristrutturazione».

Ed è un sistema carcerario, quello attuale, che «costa ogni anno ai contribuenti quasi tre miliardi di euro, ma genera tassi di recidiva tra i più alti d’Europa – ha sottolineato Orlando – I detenuti che provengono da una precedente esperienza carceraria sono infatti circa il 56%; 67% tra gli italiani e il 37% tra gli stranieri». Un sistema che contribuisce alla mancanza di sicurezza, al contrario di quanto vorrebbe far credere il populismo securitario. «La recidiva di coloro ai quali è stata applicata una misura alternativa è di circa il 20%, drasticamente inferiore a quella di coloro che scontano la pena interamente in carcere», spiega Orlando. Che aggiunge: «Prevedere trattamenti individualizzati e l’utilizzo integrato di pene alternative non è un regalo ai delinquenti, come gridano gli imprenditori della paura, né la dimostrazione del lassismo dello Stato. È invece l’intelligente investimento di una società che decide di non consegnare al carcere la funzione di scuola di formazione della criminalità».

Il carcere di un Paese civile non è un «cimitero dei vivi», come lo definì Filippo Turati, né «deresponsabilizzante e organizzato in modo da spingere i reclusi verso una dimensione infantile» come è ora. È invece più vicino a quello «proposto negli anni da Marco Pannella», ricorda Orlando, con i suoi «incessanti moniti su una realtà trascurata che sono stati troppo spesso inascoltati». L’applauso per il vecchio leader Radicale è risuonato di nuovo, stavolta non solo da parte dei detenuti, dentro Rebibbia.