Entro fine giugno sarà pronta la bozza della riforma degli ammortizzatori sociali che stabilirà l’«architettura» di alcuni importanti cambiamenti nelle politiche sociali occupazionali in Italia. Dopo averla annunciata entro aprile, e poi a luglio, ieri il ministro del lavoro Andrea Orlando ha detto che »entro l’estate» (cioè settembre?), «cominceremo a scrivere nero su bianco il provvedimento». L’entrata in vigore della riforma dovrebbe avvenire nel 2022, in forme e tempi ancora tutte da stabilire, dopo il varo parlamentare.

Orlando è tornato a presentare la riforma in gestazione, attualmente oggetto di un’ampia consultazione tra tecnici e parti sociali, come «tendenzialmente universalistica». Questa curiosa definizione risponde alla logica del Welfare italiano: l’universalismo selettivo, o differenziato, che si rivolge a tutti i cittadini selezionando le prestazioni in base alle categorie, alle tipologie dei contratti e dei settori produttivi. In questo caso il ridisegno degli ammortizzatori sociali, allo studio di una commissione nominata dall’ex ministra del lavoro Nunzia Catalfo, è stata prevista l’eliminazione delle disparità nell’accesso alle prestazioni di sostegno al reddito rendendo la protezione tempestiva e efficace a prescindere dal settore, dalle dimensioni d’impresa e dal contratto di lavoro. Ciò dovrebbe portare a una maggiore tutela del lavoro autonomo e precario sia nel caso dell’intermittenza lavorativa che in quello della perdita delle commesse o dei posti di lavoro. La riforma dovrebbe riconoscere al lavoro autonomo – già oggetto di un simbolico intervento chiamato «Iscro» – e a quello autonomo professionale, alcune tutele di natura universalistica. I contenuti sono ancora oggetto di definizione di tavoli «ad hoc», insieme al lavoro stagionale in agricoltura e a quello intermittente dello spettacolo. Per quest’ultimo si procede su un binario separato. Si tratterà di capire se questi interventi rientreranno in un piano organico, oppure resteranno aggiustamenti parziali e settoriali.

Orlando ha confermato l’intenzione di legare il riconoscimento dei nuovi ammortizzatori sociali alle politiche attive del lavoro e alla formazione. Queste ultime dovrebbero essere estese sia alle partite Iva che ai cassintegrati. Questa, in teoria, potrebbe essere una novità prodotta dalla riforma. «Non vogliamo mettere in campo uno strumento passivo – ha detto Orlando – ma uno strumento che sia in grado di dare anche più capacità di reimpiego alle persone che perdono il lavoro e più capacità di difenderlo a quelli che lavorano in una impresa che sta attraversando una trasformazione”. Questo ragionamento è tipico della trasformazione del Welfare in Workfare. Se il primo condiziona la ricerca del lavoro all’uguale e universale godimento delle tutele, il secondo condiziona i diritti all’accettazione del lavoro, qualunque sia e in particolare nelle occupazioni brevi, sottopagate e a bassa produttività.

La logica è: nessun welfare senza l’obbligo di accettare i percorsi stabiliti dallo Stato, e dalle regioni, insieme alle imprese. L’attesa quasi miracolistica nelle «politiche attive del lavoro», presentate come la soluzione alla precarietà e alla disoccupazione prodotta dalla crisi pandemica non prevede la prova della realtà. Queste politiche neo-liberali, già previste dalla legge che ha istituito nel 2019 il «reddito di cittadinanza» (in realtà, il primo passo del Workfare all’italiana), non sono mai partite e oggi navigano nel buio. Si aspetta infatti un’altra «riforma» che, tra le molte cose in sospeso, dovrebbe chiarire il ruolo dell’Anpal, delle regioni e del governo. Quanto al lavoro che dovrebbero trovare non esiste. E, se esiste, è quello (iper)precario.