Come un mal d’Africa

Tutto può essere occasione di riflessione, tutto. Così, se si dovesse parlare d’Africa, si potrebbe iniziare un ragionamento e quindi un percorso sulla scia di una celebre canzone italiana, perché no – sì poi, proprio quella: Mal d’Africa di Franco Battiato.

E così, per dire, si avrebbero nell’ordine: appunto una canzone, e dunque una esperienza sociale e culturale; l’allusione a un tema, dal momento che il mal d’Africa si può definire, in fondo, come una sorta di nostalgia di chi è stato in Africa e desidera farvi ritorno e un qualcosa che chiameremo (per comodità) esempio, perché in grado (a suo modo) di orientare il nostro punto di vista italiano verso un preciso immaginario, quello africano.

Ora, a partire da tutto questo proviamo a muoverci verso un’altra esperienza sociale e culturale però più articolata e stratificata – tipo, quella di una casa editrice – cercando di sviluppare il tema citato – ipotizziamo: una certa conoscenza dell’Africa, da una determinata produzione culturale – e però cercando di mantenere l’orientamento di cui sopra – come a dire, con la classica divisione iniziale tra Noi e Loro.

Voilà, ecco anzitutto l’oggetto di riflessione: Humboldt Books (in rete: www.humboldtbooks.com), casa editrice di base a Milano ma con ambizioni internazionali, nata da pochi anni. Nello specifico parliamo, logicamente, dei loro libri relativi all’Africa, quelli pubblicati fino a oggi e quelli che pubblicheranno a breve. Sono libri diversi per genere e composizione – vanno dalla letteratura di viaggio a quelli che potremmo definire progetti d’artista – ma sono anche libri le cui narrazioni, assieme agli argomenti trattati, offrono l’occasione di farsi, in fondo, la propria trama o montaggio di immagini, intuizioni e idee in merito a ciò che si è indicato come il tema, qui, di interesse. Certo, occorrerebbe però e prima di tutto capire in che termini porre la parola conoscenza, dal momento che tra nozionistica, accademia, informazione si rischia di non cogliere qualcosa di altro. In merito, si potrebbe suggerire: una conoscenza fatalmente lacunosa ma allo stesso tempo estesa a diversi aspetti dell’esistente, non mediata da sovrastrutture, in grado di offrire suggestioni per percepirne le tracce e rendere possibile una rivisitazione contemporanea di alcuni motivi storico-culturali importanti, alla base di un modo di vedere e capire che noi abbiamo dall’Italia – e quindi, per contiguità, dal punto di vista occidentale – di fronte a quell’insieme di associazioni mentali, tra immagini e pensieri, che la parola Africa evocherebbe o addirittura rappresenterebbe.

Quello che segue è un percorso lungo tali suggestioni e motivi, attraverso i libri Humboldt sul tema, nella speranza che si possa sollecitare, a chi legge, un proprio percorso in merito (la trama o montaggio menzionati), uno stimolo a saperne di più, il desiderio di visitare i posti citati e, ça va sans dire, la lettura degli stessi libri.

The rhythm of the heat

Da dove iniziare? Chiaro: per orientarsi in una geografia occorrono mappe e itinerari.

Dal primo libro in ordine di tempo, cioè Narciso nelle Colonie. Un altro viaggio in Etiopia di Vincenzo Latronico (testo) e Armin Linke (foto) – la combinazione scrittore più fotografo è per ora una prassi della collana di letteratura di viaggio contemporanea della casa editrice (in co-edizione con Quodlibet) – all’ultimo, in attesa di pubblicazione, cioè la ristampa del capolavoro del grande scrittore francese Michel Leiris, L’Africa fantasma, passando per Negus – progetto del duo artistico italiano Invernomuto – e per Fara Fara – a Film Not Made dell’artista belga Carsten Höller (alla Biennale di Venezia di quest’anno) – la mappatura africana della casa editrice si configurerebbe in modo preciso. Anzitutto, idealmente, nel cuore del continente, dal momento che lo attraverserebbe in orizzontale, da costa a costa, e questo grazie alla presenza del diario di Leiris, scritto durante la celebre missione etnografica a cui prese parte, la Dakar-Gibuti (1931-33), sotto la guida dell’antropologo francese Marcel Griaule. Poi però è come se diventasse più particolareggiata in zona Etiopia, sia per il libro di Leiris sia logicamente per quello di Latronico e Linke ma sia, anche, per il lavoro di Invernomuto. Toccando alla fine il Congo con il progetto di Höller, e quindi il racconto che vede coinvolto l’artista assieme ai suoi collaboratori-amici.

Ora, data la posizione strategica in una mappatura del genere, iniziamo dall’Etiopia, e proprio da Narciso nelle Colonie. Nell’itinerario scelto di Latronico e Linke, un percorso da Gibuti verso Addis Abeba, «coperto nell’ultimo secolo da un’eroica ferrovia iniziata a fine Ottocento e mai del tutto completata, sempre rammendata un attimo troppo tardi, sempre sull’orlo del malfunzionamento, e attualmente dismessa», uno degli aspetti più interessanti a venire fuori sta in come Latronico riesce a far passare tracce di memoria storica di quei luoghi – il fascismo coloniale, la rivoluzione del Derg, le particolarità contemporanee – attraverso la sua memoria familiare, lì non direttamente vissuta e lì intimamente radicata.

Da qui, al di là degli esiti del viaggio in questione – come sempre, iniziato cercando qualcosa e finito trovando altro – si può provare a prendere tale punto-di-vista come modello astratto: come dire, un approccio empatico all’esperienza. Un modo attraverso cui, forse, non farsi influenzare da determinate aspettative, siano esse personali o sociali. Qualcosa che per chi legge potrebbe valere come invito a evitare atteggiamenti di chiusura per poche o troppe nozioni; qualcosa che per chi viaggia potrebbe valere come indicazione a non osservare da turista così come non scambiare le proprie visioni per etnografia.

Ma a questo punto si potrebbe azzardare a parlare di ritmo per indicare lo sviluppo di un tale approccio, come movimento tra determinati limiti. Qui, inoltre, si può leggere come suggestione in grado di indicare – a chi fa esperienza della lettura e del viaggio – il senso di un orientamento. Attraversare un territorio, conoscere una cultura: dalla scrittura di Latronico e dalle immagini di Linke, la questione sembra tutta nel come entrare in sintonia con un certo ritmo in senso lato.

Nonostante le strategie testuali diverse è una sensazione che ritorna anche negli altri libri…

All’ombra di miti e riti

Dato un ritmo, gli sviluppi sono molteplici, tanto sul piano temporale quanto su quello spaziale: nel primo caso plasmando storia, memoria, miti; nel secondo attraversando situazioni, comunità, riti. In merito, la casa editrice Humboldt offre due ottimi esempi fra i libri citati.

Nel primo caso siamo ancora, di base, in Etiopia. Negus di Invernomuto – come detto, un duo artistico italiano, cioè Simone Bertuzzi e Simone Trabucchi, attivo dal 2003 e al lavoro su diversi media – è un progetto iniziato nel 2011 e su più fronti espressivi. Gli artisti dicono: «Negus ha origine da un preciso avvenimento storico risalente al tempo dell’occupazione italiana in Etiopia: nel 1936 un soldato ferito fu costretto a rientrare a Vernasca (PC), nostro paese natio. In occasione del suo ritorno, la collettività organizzò un festoso e oscuro rituale: in piazza fu incendiata l’effigie di Haile Selassie I, ultimo Negus di Etiopia nonché Messia secondo il culto Rastafariano, sviluppatosi in Giamaica a partire dagli anni ’30. Non esistono documenti filmici né fotografici che testimoniano il fatto, ma siamo riusciti a raccogliere molti racconti, a partire da alcuni familiari che hanno assistito al rito. […] Il progetto segue una traccia biografica, in partenza, ma poi si espande e cresce arrivando in Etiopia e Giamaica, tessendo una trama di andata/ritorno attraverso questi luoghi. Racconta alcuni nodi del passato coloniale italiano e li mette in relazione con le simbologie della tradizione rastafariana.» Il libro pubblicato da Humboldt, in occasione dei loro progetti I-Ration e Negus – For Eye, rispettivamente all’ ar/ge kunst e al Museion (Bolzano, 2014), esplica molto bene gli intenti del duo: al di là di una serie di testi, per così dire, di iniziazione al loro lavoro (la genesi del mito del Negus; la presenza della Giamaica attraverso la musica; la descrizione del progetto), la pubblicazione offre una sorta di trama per immagini – di diversa natura e da diverse fonti – che arriva a far toccare agli occhi la complessità di una trasmissione culturale stratificata di significati e simboli in movimento temporale (lineare o anacronistico) relativi a un soggetto preciso, l’iconografia di Selassie. Si può dire che sia uno dei temi per eccellenza oggi: la sopravvivenza delle immagini. Un tema spesso sognato dalle scienze sociali ma spesso mancanti di sguardo artistico per farlo percepire senza (troppe) sovrastrutture.

Passiamo ora al secondo caso, spostandoci dall’Etiopia al Congo. Un movimento dove la metafora del ritmo, attraverso la musica, conduce verso una sorta di rito contemporaneo. Fara Fara – a Film Not Made nasce come progetto dell’artista Höller – appunto, un film non fatto, non ancora, che l’artista girerà con il cineasta svedese Måns Månsson – di cui il libro in questione, contenente «foto scattate a partire dal 2001 durante i numerosi viaggi di preparazione fatti da Pierre Björk, Hoyte van Hoytema, Reed Kram, Armin Linke, Giovanna Silva, Patrik Strömdahl e dai registi», presenta un testo (in inglese e francese) di Elin Unnes, «scrittrice svedese ed esperta di musica». Al di là della aneddotica del racconto – una specie di taccuino di un viaggio e soggiorno in Congo avvenuto l’anno scorso (presenti Höller, Månsson, Björk, Silva e altri, inclusa naturalmente lei, la narratrice) – quello che colpisce è proprio l’argomento in questione: «Fara Fara vuol dire “faccia a faccia” in Lingala ed è un fenomeno musicale profondamente radicato nella cultura congolese. Due gruppi suonano contemporaneamente, l’uno accanto all’altro, e quello che riesce a suonare più a lungo vince. […] Il Fara Fara è un evento imponente che attira grandi folle, ma è raro che accada. Questo libro racconta di un film su un Fara Fara che ha luogo a Kinshasa, una battaglia musicale fra i due più grandi esponenti della rumba congolese contemporanea.» Dalla lettura quello che si evince è che il Fara Fara sembri poter funzionare come chiave di lettura della società congolese: è incredibile constatare come la musica sia un fattore decisamente politico in Congo. Certo poi, il testo non ha pretese scientifiche, ma può senz’altro valere come traccia per future ricerche, oltre una certa idea di pittoresco.

Luci sul pittoresco

Nell’introduzione di Narciso nelle Colonie c’è un passaggio rivelatore, riportato da Latronico, un dialogo tra lui e Linke, post-viaggio, nello studio berlinese del fotografo, durante la scelta delle foto per il libro: «dopo alcuni minuti in cui ho osservato le immagini […], mi sono reso conto che erano in gioco gli stessi filtri o sistemi di frenata automatica che dovevo affrontare scrivendo. “Non sono molto raffinato”, mi sono schermito, quasi ridendo, per giustificare la mia indecisione e la mia predilezione per immagini banali. “Le foto che mi piacciono sono tutte di paesaggi drammatici, o donne che lavorano al mercato, insomma, cose così, un po’ pittoresche”. Armin ci ha pensato su per qualche secondo. “Sai”, mi ha detto, “forse non mi interessa evitare il pittoresco”.» Ecco, quanto trascritto può valere come indicazione di lettura anche per Negus e Fara Fara – a Film Not Made, specificatamente per la funzione degli apparati visivi, le fotografie (sospendiamo il discorso in merito per L’Africa Fantasma dal momento che deve ancora uscire: inoltre, testo e immagini sono relativi a un periodo temporale non contemporaneo).

Quindi, parliamo di pittoresco. Ma di quale pittoresco si può parlare?

Nella citazione di cui sopra credo che tanto Latronico quanto Linke avessero in testa, in quel momento, un senso del pittoresco che è quello, in fondo, d’uso quotidiano – o se proprio non identico, prossimo. Pittoresco come esotismo, modalità espressiva di una precisa mentalità culturale (in antropologia, un atteggiamento capace di far tendere la propria osservazione verso una negazione della coevità, cioè l’errore di fare del mondo dell’altro che si sta descrivendo un altro mondo, come fosse strutturato e articolato dentro un altro spazio-tempo). Ora però il punto qui è davvero un altro, e sta tanto in un corretto avvicinamento al senso originario di pittoresco quanto nella resa espressiva dei libri in questione (sì, anche al di là delle opinioni dei singoli autori).

In merito al pittoresco, quello che si può dire – in breve – è che si tratta di una nozione capitale per ciò che sono state la letteratura di viaggio e la stessa antropologia in Occidente. Per dare una indicazione di massima, si potrebbe parlare di pittoresco come di una sorta di equivalente – sul campo – del senso del sublime, per l’importanza di questo nella filosofia contemporanea alla nascita e all’evolversi delle discipline menzionate. Dunque, un modo della conoscenza in grado di condurre dal visibile a una certa sensazione ideale, terribile e bellissima assieme. Come dire: vedere non è tutto. Da qui, allora, ai libri: osservando le fotografie di Linke, ammirando la collezione messa su da Invernomuto, soffermandomi sui momenti catturati e raccolti nel libro di Höller, quello che vedo sono serie di immagini senza manierismi, il più possibile dirette, ma allo stesso tempo concepite attraverso approcci – teorico in Linke, archivistico in Invernomuto, narrativo in Höller – in grado (per così dire) di de-centrare l’azione di influenza della visione, e quindi di mettere in relazione più fluida parte visiva e parte scritta. In ogni singolo caso. Alla fine, una questione di percezione, che nel passaggio da una visibilità a una complessità stratificata può indirizzare a una comprensione più autentica di come si possa materializzare, effettivamente, il pittoresco.

Una comprensione a cui una tradizione culturale come riferimento può – forse – essere d’aiuto.

Tracce di surrealismo etnografico

Arriviamo a questo punto a L’Africa fantasma, diario di un viaggio scientifico che terminerà – puro fascino del caso – a Gibuti, quindi da dove inizierà anni dopo, come detto, il viaggio di Latronico e Linke (quasi a suggerire un girotondo temporale).

Ora, per chi non conoscesse il lavoro di Leiris – letteralmente eccezionale, in grado di stare dentro diverse discipline – il libro in questione segna, inequivocabilmente, il periodo antropologico dello scrittore, uno dei frutti migliori, quelli non impazziti, di quella breve stagione culturale francese del surrealismo etnografico, attraverso cui ci è stata lasciata una idea di incontro ancora oggi insuperata tra certa arte, letteratura e scienze sociali: parlano alcune idee di Georges Bataille, il lavoro di Jean Paulhan in Madagascar, un po’ della scrittura di Henri Michaux, il cinema di Jean Rouch e parte di quello di Chris Marker (uno direbbe, e in Italia? Storia diversa, pochi casi simili, ma tra questi si potrebbe forse fare il nome del dimenticato Franco Ferrara).

Ecco dunque. Ristampare L’Africa fantasma, al di là del merito dell’azione – avrà ottima curatela e foto inedite – potrebbe in fondo rivelare, per il momento, un fil rouge potenziale che lega tutte le pubblicazioni sull’Africa di Humboldt, presentando quanto finora prodotto proprio come fosse un tentativo di recuperare e seguire tale tradizione, il surrealismo etnografico come orizzonte migliore per orientarsi sulle tracce della conoscenza africana: «scrivo queste righe nella cuccetta. La nave beccheggia leggermente. Ho la mente sgombra e il respiro tranquillo. Non mi resta altro da fare che chiudere questo taccuino, spegnere la luce, allungarmi, dormire, – e fare dei sogni…»