Con una semplice operazione di taglia e incolla potremmo prendere le sequenze del pestaggio inflitto a Genova al giornalista di Repubblica Stefano Origone e inserirle in uno dei tanti documentari sul G8 di Genova 2001.

Decine, forse centinaia di persone furono picchiate come lui per strada senza motivo e spesso anche arrestate. Fra tanti episodi, documentati anche in tribunale, potremmo ricordare i pestaggi di piazza Manin, poco lontano dal luogo dell’aggressione al cronista di Repubblica: numerosi attivisti della Rete Lilliput furono aggrediti, picchiati, portati via.

Di fronte all’ipotetico taglia e incolla non ci accorgeremmo del trucco, perché trucco in fondo non c’è. Se nel 2019 assistiamo a scene che sembrano del 2001 è perché la polizia di stato non ha mai davvero considerato con vergogna e quindi rinnegato la polizia di Genova G8.

Perciò non possiamo sorprenderci troppo di fronte alla vicenda del cronista di Repubblica e semmai dovremmo domandarci se ci sarebbe stata altrettanta eco mediatica se al posto di Origone ci fosse stata un’altra persona, un anonimo cittadino senza tessera dell’ordine dei giornalisti.

Ce lo dovremmo chiedere anche per le incredibili – letteralmente non credibili – affermazioni lette sui giornali, cioè che il pestaggio sarebbe stato fermato da un vicequestore perché questi avrebbe riconosciuto il giornalista. Non può essere andata così; se tale ricostruzione fosse vera, significherebbe che il pestaggio di un uomo a terra, già ridotto all’impotenza, sarebbe proseguito se si fosse trattato di una persona comune, fuori dalle conoscenze del vicequestore.

Il quadro sarebbe anche più grave di come appare, ma siamo certi che il cronista e il vicequestore smentiranno davanti ai magistrati questa ricostruzione. Allarma tuttavia che essa sia fatta propria da media, politici e osservatori vari, come se l’atto di fermare un brutale pestaggio fosse comprensibile solo in caso di riconoscimento della vittima come persona perbene e innocente.

Le cronache dicono che il questore di Genova ha visitato il giornalista in ospedale, chiesto scusa e assicurato un’inchiesta rapida ed efficace: è un gesto certamente apprezzabile, ma non possiamo dimenticare che le parole di scuse possono forse bastare a risolvere una lite, un diverbio, anche un incidente violento fra privati cittadini, ma non sono sufficienti in caso di relazioni asimmetriche, di abusi di potere, di azioni sbagliate compiute in nome della collettività.

Le scuse, in questi casi, devono essere accompagnate da gesti concreti, a tutela della dignità e credibilità dell’istituzione: il questore dovrebbe insomma dimettersi e con lui il capo della squadra mobile. Dopo un gesto del genere, si potrebbe aprire una discussione seria sullo stato di salute democratica della polizia di stato; potremmo indagare davvero su quel filo nero che lega il disastro del 2001 ai fatti del 2019.

Scopriremmo probabilmente che il filo non si è mai spezzato per l’atteggiamento tenuto in questi anni dai vertici della polizia di stato, che hanno rifiutato, appoggiati da governi e maggioranze di ogni colore, di assumersi piena responsabilità dei fatti e di accettare fino in fondo le sentenze della magistratura, incluse quelle della Corte europea dei diritti umani, che prescrivevano fra l’altro l’introduzione dei codici di riconoscimento sulle divise e l’esclusione dalla polizia dei funzionari condannati nel processo Diaz, oltre che una legge sulla tortura.

L’Italia, come sappiamo, ha scelto la via della fuga dalle responsabilità: una legge sulla tortura è stata sì approvata, ma scritta in modo da renderla inefficace e sostanzialmente inutile, o forse peggio che inutile; i codici di riconoscimento e l’esclusione dei condannati sono stati bellamente ignorati, accampando fasulle motivazioni tecnico-giuridiche.

Alla fine possiamo dire che il caso di Stefano Origone (al quale va la mia piena e sentita solidarietà; credo di sapere, memore della notte dei manganelli alla Diaz, che cosa intenda quando dice: “ho avuto paura di morire”), il pestaggio genovese, dicevo, ci consegna una polizia di stato vittima dei suoi antichi fantasmi, ancora a disagio con le regole, i limiti, le norme di trasparenza tipici delle democrazie più sane.

Genova 2001 ha insegnato poco e siamo ancora distanti dal voltare pagina: è questo l’amaro messaggio che ci arriva dai manganelli abbattuti sul corpo di un malcapitato cronista.

*Comitato Verità e Giustizia per Genova