Continua da giorni convulsi e da notti sofferte l’ostruzionismo che sulla «riforma della Costituzione» proposta da Renzi e in discussione al Senato, oppone alla furia del revisionismo senza principi, i principi del costituzionalismo. Quelli dei limiti al potere e delle istituzioni del contropotere. L’impronta muscolare impressa da Renzi al conflitto rischia di offuscarne le ragioni. È bene perciò riproporle. Attengono alla democrazia.

Renzi, a fronte delle riserve, obiezioni, critiche, espresse sulla sua «riforma», afferma che definirla svolta autoritaria «significa litigare con la realtà». Ma è la realtà che lo smentisce. Ne rivela la verità. La trae da come fu concepita e da chi, dal modo come è disegnata e la si vuole definire, dal come verrebbe configurato l’organo che ne è l’oggetto, dagli effetti che sull’intero apparato statale deriverebbero dalla sua approvazione.

Non si può eludere un fatto incontrovertibile. Il governo Renzi si è costituito in una situazione di grave e strutturale crisi dello stato italiano, quella di dover ottenere la fiducia da un Parlamento composto in conformità ad una legge elettorale dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale. Un governo quindi di evidente e massima emergenza, dalla durata strettamente corrispondente al tempo necessario al ripristino della legalità costituzionale con l’elezione di un Parlamento con legge elettorale non sospettabile di incostituzionalità.
Il governo Renzi avrebbe dovuto, e dovrebbe, perciò caratterizzarsi come provvisorio, a funzionalità limitata.

E allora: non è, quanto meno autoritarismo, quel che pervade l’intero apparato della Repubblica nel tollerare l’illegittima durata in carica di tale governo, e, con essa, la pretesa del suo Presidente del Consiglio di esercitare l’iniziativa legislativa costituzionale, finora riservata, con norma consuetudinaria, ai soli membri di ciascuna delle due Camere?

Non è quindi autoritarismo l’appropriazione da parte del Governo di un potere che va oltre quello di indirizzo politico, il solo spettante, in regime parlamentare, al rapporto maggioranza–governo, con la presentazione di un disegno di legge mirante a trasformare radicalmente la strutturazione del Parlamento, i rapporti stato-regioni, gli istituti di democrazia diretta?

Non è autoritarismo intervenire sulla composizione di una Commissione parlamentare per ottenere che, per l’esame del disegno di legge di «riforma», si sostituisse un suo membro con un altro di sicura sottomissione alla volontà del Presidente del Consiglio?

Non è autoritarismo imporre che emendamenti al suddetto disegno di legge costituzionale fossero discussi ed approvati in Commissione solo se provvisti del «visto» del Governo? È o non è autoritarismo pretendere l’intangibilità del testo del disegno di legge governativo da parte dell’Assemblea plenaria di un ramo del Parlamento?

Non è autoritarismo la configurazione degli organi del Parlamento come apparati di servizio del Governo e del suo Presidente del Consiglio? Quel servizio che Renzi vuole imporre da adesso al Senato per sottoporlo in via definitiva al Governo riducendolo ad emanazione di enti (le Regioni e i Comuni) che dal governo ricevono la gran parte delle risorse necessarie all’esercizio delle loro funzioni?

Quello stesso servizio cui è destinata la Camera dei deputati, eletta col sistema approvato qualche mese fa? Un sistema a coazione duplice, bipolare e maggioritaria e che falsifica questi due termini. Falsifica il bipolarismo due altre volte ancora, sia perché impone una soglia di voti minima enorme (la contraddizione è auto evidente) per ottenere una qualche presenza in quella sede, sia perché determina una riduzione massiccia dei seggi spettanti ad ogni formazione elettorale che abbia avuto anche un solo voto in meno della seconda delle formazioni maggiori (qualunque possa essere poi la somma dei voti ottenuti da tutte le formazioni minori). Falsifica il concetto di maggioranza che si identifica nel conseguimento della metà più uno dei voti espressi e che viene invece interpretato come coincidente col numero dei voti più alto conseguito da una delle minoranze. Privilegia tale minoranza rispetto a tutte le altre conferendole un premio in seggi, seggi che sottrae a tutte le altre.

La trasforma in una entità che tale minoranza avrebbe mirato ad essere ma che il corpo elettorale le ha negato di diventare. Un dispositivo che produce effetti contrari alla volontà espressa dal corpo elettorale inferisce un vulnus insanabile alla democrazia. Non lo attenuerebbero né le preferenze, né la riduzione delle soglie. In nessun caso potrebbe ottenere una qualche legittimazione democratica. Lo si pone invece a fondamento del potere di governo, un potere che non incontra limiti.

È litigare con la realtà definire questa riforma come svolta autoritaria? È lecito chiedere a Renzi quali siano e dove i contropoteri che ne escluderebbero l’autoritarismo?

A proposito dei fondamenti, gli si può domandare, per cortesia, da dove e verso dove si possono intravedere del sistema che vuole instaurare tracce di quella rappresentanza che identifica lo stato moderno e ne legittima il potere?