Tra il 10 e il 22 agosto la XXXVIII edizione del Rossini Opera Festival di Pesaro, dedicata alla memoria di Alberto Zedda, propone un tris di opere assai variegato: la prima assoluta di Le siège de Corinthe e la riproposizione de La pietra del paragone del 2002 e di Torvaldo e Dorliska del 2006. Il 10 agosto Le siège de Corinthe è stato dato nell’edizione critica predisposta per la Fondazione Rossini da Damien Colas, che ha tentato di ricostruire la partitura originale eseguita per la prima volta all’Opéra di Parigi il 9 ottobre 1826, successivamente sottoposta a incessanti scorciature e interpolazioni, in particolare dall’italiana Maometto II (1820), di cui l’opera francese era in larga parte rifacimento.

L’allestimento di Carlus Padrissa, del collettivo catalano La Fura dels Baus, assieme alla pittrice e videoartista Lita Cabellut, entrambi al loro debutto pesarese, richiama l’originario carattere di pamphlet dell’opera, coeva alla Guerra d’indipendenza greca: su di essa Rossini disse la sua in musica come Lord Byron aveva fatto poco prima con l’omonima novella in versi cui è ispirato il libretto di Alexandre Soumet. Alcuni di quei versi Padrissa fa proiettare sul fondale del palco durante l’ouverture e gli intermezzi orchestrali, finendo per riempire con postmoderno horror vacui spazi che dovrebbero essere lasciati alla pura contemplazione auditiva. L’intenzione è quella di mettere in scena, attraverso astrazioni e tableaux vivant (come si conviene al genere della tragédie lyrique con cui Rossini si cimentava per la prima volta), l’archetipo sempre attuale della guerra tra occidente mediterraneo e medio oriente, che non è solo la guerra di religione e di costume del passato e del presente, ma anche la guerra del futuro per il possesso della risorsa naturale più preziosa: l’acqua, onnipresente in scena attraverso architetture di fusti di plastica (il palazzo del senato e le tombe di Corinto, così come il padiglione turco) e azioni che ne prevedono il versamento, la ricerca, il furto.

I costumi che indossano i due popoli sono uguali, a meno solo delle macchie di sangue che imbrattano quelli turchi. L’azione si svolge parzialmente anche in platea, accompagnata da stendardi espressionisti.Roberto Abbado dirige l’ottima Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, al suo esordio al Rof, e il Coro del Teatro Ventidio Basso, entrando nella «nuova» partitura con lo spirito di ricerca di un vero pioniere e con la consapevolezza di un grande direttore rossiniano: il risultato è armonicamente cangiante, dinamicamente trascinante, drammaturgicamente commovente. Lo asseconda un cast di cantanti tutti giovani e belli. Menzioni speciali per la voce spiegata, liricissima e umbratile di Nino Machaidze, omogenea dal grave all’acuto e dotata di una buona coloratura naturale; per gli sfolgoranti acuti tenuti e per la presenza scenica di Sergey Romanovsky; per la tempra austera ed energica di Carlo Cigni; per la prestanza di Luca Pisaroni, la cui voce, pastosa nel registro grave e medio, sconta qualche scopertura in acuto; per la precisione cristallina e penetrante di John Irvin.

Meritano una lode anche i talenti formatisi all’Accademia Rossiniana Xabier Anduaga, Iurii Samoilov e Cecilia Molinari, tutti assai promettenti. Il risultato complessivo, con buona pace di nostalgici o feticisti degli allestimenti didascalici, è uno spettacolo compiuto, dove ogni parte si integra agilmente nel tutto, senza che la tensione drammatica cali mai. Ovvero ciò che uno spettacolo, seppur perfettibile, dovrebbe sempre essere.