Certo, al corrente di quanto avverrà, possiamo anche essere autorizzati a pensarlo: che fosse un tal Paul-Auguste Bretagne, detto Charles, a iniziare un encombrant ragazzotto di Charleville al mito dell’Oriente. Arthur, attonito, ascoltava Charles, un vorticoso affabulatore che sguazzava nell’occultismo e nella magia. Dava a intendere d’aver letto tutti i libri, in ispecie d’argomento ermetico, storie di alchimisti… Il ragazzo Rimbaud incontrava Charles al Café de l’Univers. Ascoltava rapito le «lezioni» di quell’improprio «maestro» che passava dal concionare su La clef des grands mystères a evocare viaggi fantastici tutti mentali compiuti in luoghi sconosciuti, un ipotetico Oriente. Nutriva la fantasia dell’imberbe con storie che si dovevano vivere per scoprire cosa vi fosse in un al di là fantastico. E quell’infinito aveva nutrito la mente del ragazzo Rimbaud. Un Oriente gli era cresciuto dentro. Ostinato richiamo. Partì per raggiungerlo, abbandonando «la stramba Europa» il 19 novembre 1878, da Genova, con una nave dal nome più che esplicito, «Egitto»: «Mandavo al diavolo le palme dei martiri, i raggi dell’arte, l’orgoglio degli inventori, l’ardore dei predoni; io ritornavo all’Oriente e alla saggezza primitiva ed eterna». Poi, storia nota. Anche se a quel punto tutto era già stato svelato. Tutto compiuto. Lui se ne era soltanto andato. Nulla aveva in comune con «sublimi» in foia di esotismo. Presi dalla moda di farsi esploratori di un Oriente che era stato vagheggiato tale a un universo immaginario. Un mondo altro.
L’attrazione degli europei per il «fascino orientale» doveva essere idealmente affiorata, in parte, proprio dalla diffusione delle Mille e una notte, il cui primo volume era uscito nel 1704 in una più che libera traduzione adattata al gusto occidentale da Antoine Gallant. Il dodicesimo volume, a completare, l’opera apparve nel 1717. Le Mille e una notte, come noto, è incentrato sulla bella e intelligente Shahrazäde che per sfuggire una incombente tragica sorte, intrattiene ogni notte il re persiano Shahriyär raccontandogli storie di vita e avventure. Mille e una notte non dovrebbe però esser preso alla lettera. In arabo «mille» sta per «innumerevoli» e quindi «mille e uno» vale per infinito. Da quelle pagine affioravano innumerevoli mondi favolosi, si evocavano luoghi proibiti, paesaggi profilati da luci abbaglianti, rare spezie, effluvi di resine… Un mondo enigmatico, arcano, emulsionante erotismo che ubriacava. Invitava. Il desiderio di conoscere e vedere, già vagheggiava nell’immaginario di taluni europei affiorato da un antico mito, pressoché siderale: la conquista dell’India da parte di Alessandro Magno e in sovrappiù dalla «visione», tutta mentale, di un estremo Oriente suscitata dalle fantasmagorie di Marco Polo, raccontate con Il Milione che, fin dal XIII secolo, aveva diffuso enigmi, bizzarrie, curiosità e utopie, ritenute spesso invenzioni.
La «relazione» del viaggio compiuto da Marco Polo, che si era spinto ben oltre il Karakorum, arrivando fino al Catai, testimoniava tuttavia l’esistenza di una «dimensione altra», un «pianeta» dove sussisteva una realtà «diversa», sofisticata, assolutamente non paragonabile alle civiltà europee. Ma che nessuno aveva mai visto.
Per il vecchio continente l’immaginario mutò in proiezione verso un altrove. C’era un altro pianeta. Contiguo. Dal XVIII secolo, infervorati dal nascente illuminismo, alcuni vollero avventurarvisi in una diretta esplorazione, «una rigorosa osservazione scientifica», corroborata da uno strano magnetismo, un incantamento da suggestioni, un orgasmo «per vedere direttamente». E certi intelligenti partirono. L’avventura produsse diari e resoconti: una vera e propria maniera letteraria: le narrazioni del viaggio in Oriente.
Il continente dove sorge il sole viene «raccontato», soprattutto tra il XVIII e il XIX secolo, dai diari e dalle memorie, sotto forma di cronache, da chi aveva affrontato «l’ignoto». Quelle «relazioni», tradotte nelle lingue europee, contribuirono a «costruire» negli occidentali una visione fantasmatica dell’Oriente. Fu la scoperta di una identità perduta, la possibilità di vivere in un passato immutato, lo spettacolo di un antico quotidiano cristallizzato. Il viaggio in Oriente voleva forse dire ritrovare i tempi perduti. Procedendo a ritroso. E fu, come si potrebbe intendere, un susseguirsi di esaltazioni, in buona parte anche fantasiose. Facile sbrigliare l’immaginazione per luoghi sconosciuti, appena visitati. Le impressioni dell’incognito. Visioni immobili e dinamiche. Lingue mai intese.
Attilio Brilli con il suo recente Il grande racconto del favoloso Oriente (il Mulino «Grandi Illustrati», pp. 480, € 48,00), con anche una sorprendente iconografia d’argomento – un «corposo tour» tra pittori e illustratori indicati come «gli orientalisti» – e una antologia riesumante, in una nuvola di citazioni, «scriventi di viaggio», noti e inabissati, che si spinsero nel «misterioso al di là», mette «ordine» nel pirotecnico scenografico allestimento: «Già nel XVIII secolo, spetta tuttavia a una donna di talento, Lady Mary Wortley Montagu, consorte dell’ambasciatore britannico presso l’impero ottomano, verificare sul posto le mirabolanti descrizioni dei suoi predecessori che non mancano di parlare di donne che non hanno mai visto, di discorrere di uomini di alto rango al cospetto dei quali non sono mai stati ammessi, di descrivere moschee dove non hanno osato mettere piede». Tra altri «controlli» Lady Montagu era riuscita a farsi invitare nell’harem del sultano per vedere di persona in cosa consistesse un serraglio di donne bellissime.
Percorrendo «l’esplorabile pianeta» gli «illustri», trafitti dalle contemplazioni delle «novità» cercavano, come d’abitudine, nella prevedibile fatica del viaggio, possibili comodità. Chateaubriand ad Alessandria soggiornava presso il consolato di Francia. Anche Lamartine a Beirut fu accolto del console. Richard Francis Burton, più avventurosamente, viaggiava solo, travestito secondo «gli usi dei luoghi». Arrivò fino alla Mecca. Nelle labirintiche città sostava nei caravanserragli, illusori alberghi, luoghi dove si affittavano alloggi simili ad antri, sudici e in perenne stato di provvisorietà. Qui con tutto il confusionario di animali da soma confluivano nuvole di pellegrini: «Gente – come la vide con paternalistica compassione Alexander William Kinglake – la cui sorte non è allegra: sono il gradino più basso della razza umana, e tutte le colpe dei loro superiori, compresi i cavalli, possono essere fatte ricadere su di loro senza pericolo. Ma i miserabili hanno spesso un aspetto più pittoresco di chi sta meglio di loro, e benché il mondo intero disprezzi questi poveri, con i loro volti abbronzati e le loro grigie barbe non sfigurerebbero nel primo piano di un paesaggio».
Edward W. Lane traversò Egitto e paesi arabi: vantava come nella località prive di caravanserraglio i viaggiatori venissero ospitati dallo sceicco o a casa dei maggiorenti delle città. Il beduino del deserto che si affaccendava per accogliere al meglio il viaggiatore, sottolineava Burckhardt, offriva all’ospite oltre al cibo, la moglie o anche la figlia nubile. Intrascurabili le «avventure» d’alcova nelle quali si sollazzò Gustave Flaubert in compagnia di Maxim Du Camp durante il viaggio compiuto nel 1849 per documentare fotograficamente le vestigia delle antiche civiltà. «Esperienze» che consentirono a «monsieur Bovary», dopo un ulteriore viaggio a Tangeri, di scrivere opere come Salammbô
Giovanni Battista Belzoni, celebrabile archeologo, curiosamente sorpreso dalla popolazione della Valle dei Re che abitava nelle arcaiche tombe dei faraoni e traeva profitto da un esibito commercio di reperti di scavo, giudicava quella gente dei primitivi, ma subdoli e astuti come volpi.
Lungo le piste carovaniere il viaggiatore naufragava in visioni letterarie. Durante il cammino, in alcun caso, era talvolta costretto a trascorrere la notte all’aperto, sotto un cielo pulsante di stelle. Era necessario allora accendere un fuoco. E i «normali» gesti compiuti per ravvivare la fiamma si trasfiguravano per Kinglake, estatico e compreso osservatore, in «poetiche» digressioni: «Le guance rigonfie del mulattiere, poggiate al livello del suolo, soffiarono dapprima con dolcezza, poi in maniera più ardita, e la giovane fiamma fu delicatamente alimentata e nutrita con sempre maggiore insistenza, sino a raggiungere pieno vigore… Poi la mia coperta, la pelliccia e il mantello furono distesi in modo che potessi giacere insieme agli altri a formare i raggi di una ruota, coi piedi rivolti al fuoco… lo sguardo verso il nero mistero del cielo, fiero di quella camera da letto infinita».
I miti orientali e gli abbaglianti territori, all’attenzione degli europei, da fascinazione fantastica, letteraria e artistica, profilandosi nel tempo in proficui orizzonti sulle rotte mercantili e su quelle missionarie, venivano intanto via via incorporati sotto specie di protettorati da parte dei grandi imperi e delle potenze occidentali: l’India britannica e olandese, l’Indocina francese… Tutto era cominciato con la scoperta di un «pianeta»: en tour a spigolare usi e costumi, dar luogo a esplorazioni archeologiche. Antiche e sacre vestigia di civiltà sepolte, riportate alla luce, avevano già preso la via verso i musei europei. Il sogno dell’Oriente cambiava di registro. Si trasfigurò, considerato secondo le pretese politiche, economiche e culturali dell’Occidente. L’antica passione mutò in una scia di presunzioni e saccenterie. Le attenzioni per un mondo magico, ammirevole, sublime e arcaico, si volsero nel colonialismo. Che dal principio di questa storia arriverà fino al Novecento.