«Non c’è niente di più goffo e pittoresco del sedentario che si metta in viaggio» scrive Giorgio Manganelli a proposito di se stesso, «professore nevrotico» di colpo tramutato in stipendiato cronista dell’altrove.

Di un molteplice altrove: Cina, Filippine, Pakistan, Malesia, Taiwan e altri paesi ancora, incontrati a partire dagli anni Settanta e descritti con quella sua prosa succulenta e funambolica, che promette di estasiare il lettore di Cina e altri Orienti (Adelphi 2013) a ogni apertura di pagina.
Manganelli parte dunque per i suoi viaggi senza abbandonare la postura del sedentario ed è pronto a squadernare la realtà come se fosse un libro stampato, tanto che la Cina gli si dischiude a tutta prima come «una biblioteca di alberi».

Ma la pretesa di decifrare i segni nei quali si imbatte dura meno di un lampo. Quel che più insiste all’interno di questi reportage è l’ottusità del soggetto: il suo sapere non è prensile, i luoghi che visita non fanno altro che divincolarsi, fino a sgusciar via. «Chi ha rubato le Filippine?» si chiede attonito di fronte alle strade senza nome di Manila, ai suoi edifici dai numeri «reticenti», a quei viali che si spostano nottetempo e alle piazze che senza sosta si nascondono alla vista. Ma non è di certo la sola Manila a sfuggire alla presa: «Non sono ben certo che la Malesia esista» continua, «sono proprio sicuro che esista il Pakistan?» e ancora «Che cosa è Taiwan? Un paese che non esiste». Se la geografia nella quale si aggira Manganelli è così erratica e inafferrabile che rischia di scivolare nell’inesistenza, questa perpetua crisi della lettura dell’Asia non produce però una rinuncia al racconto, o un suo rattrappimento.

Emerge invece, e con prepotenza, una schiera di immagini concretissime, corporali e anche volutamente volgari, che fanno schiantare di colpo ogni idea di viaggio in Oriente come ascesi mistica ed esperienza rarefatta.

È così che a Manila le donne si agitano come «tenere e fragili vestali della blenorragia», le automobili gemono in «un improbabile orgasmo prepubere» e l’aeroporto sembra avere le emorroidi, mentre in Malesia l’aria è «una variante respirabile del brodo» e anche la luna si mette a esibire le sue viscere, «flaccida e acquosa».

Viaggiare scortati da Manganelli non vuol dire allora soltanto ribaltare le nozioni confitte negli «archivi mentali» e scorticare lo sguardo orientalista, ma venire costantemente a patti con il proprio corpo, scoprire che è disseminato ovunque e che è anch’esso parte dell’altrove. Invece di un continente libresco, irto di segni inchiostrati, è insomma un’Asia tutta creaturale e sulfurea quella che si trova a scoprire il «viaggiatore sedentario»: Giorgio Manganelli, insieme a ogni suo lettore.

(Cina e altri Orienti, Giorgio Manganelli, Adelphi)