Trattandosi di romanzo cinese, forse posso permettermi un «Fei Long wan sui!» «Lunga vita a Lafirenza!», nello stile enfatico mai passato di moda del Paese di Mezzo.
Lafirenza è l’ottimo e ispirato traduttore cui va il merito raro di avere spesso scovato, nel ricchissimo panorama della letteratura cinese, testi esilaranti e all’apparenza leggeri, capaci di divertire rappresentando in modo tutt’altro che banale la complessità estrema della Cina di oggi.

Si legga quindi l’inizio scherzoso come un esplicito omaggio a La vita felice del ciarliero Zhang Damin, romanzo ironico e persino irriverente e pure tenerissimo e per niente buonista, che dà voce a una Cina di cui i media ci parlano poco, ma che è forse la Cina più vera, certamente la più rappresentativa, almeno in termini numerici, quella che ancora si porta dentro i valori profondi della «cinesità», fatta non di passione sfrenata per le griffes di moda ma piuttosto di gusto terragno per la vita, di legami veri profondi, poco esibiti ma quotidianamente nutriti, di altrettanto profonde avversioni, di litigi feroci affogati in poderose bevute, di distanza dal potere rispettosa e sospettosa, milioni di persone sostanzialmente semplici, diffidenti e in fondo irridenti, a volte codine e sempre preoccupate dei fatti propri, quelle, in fondo, su cui posano l’immenso potere – e il consenso – di Xi Jinping, gente dotata di una saggezza un poco cinica, sedimentata in millenni di storia già accumulati sul capo, capace di battutacce e insulti grevi e grassi di innominabili puzze, un mondo nel quale, attraverso l’umorismo del linguaggio «si misura la saggezza e la resilienza degli ultimi», dei personaggi da niente, i xiao renwu, ome bene evidenzia, già nel 2010, la critica acuta di Gu Jing (in Wexue pinglun, – Critica Letteraria- , n.2) il quale, insieme ad altri, si occupava di un romanzo cui arrise un successo immediato. Quel successo, paradossalmente, pare portare acqua alla disincantata e quieta poetica di Liu Heng (Pechino, 1954-); «Questo….è il mio libro più sottile…e mi sorprende scoprire che, alla fin dei conti, questo volume è quello che è stato accolto meglio; all’improvviso ho la sensazione che questo mondo sia bislacco e imprevedibile, e che i romanzi lo siano ancor di più».

Siamo nella Cina di oggi, ma forse per alcuni versi potremmo essere anche altrove («A questo mondo i figli di puttana sono tutti uguali» p. 14), e i tratti universali all’umanità si intersecano in un intreccio affettuoso con gli elementi strettamente e a volte ingenuamente cinesi, dove, nei primi anni della cosiddetta «apertura», alla fine del XX secolo, uno era l’intellettuale di famiglia perché «portava gli occhiali, indossava scarpe da ginnastica e usava regolarmente una crema per il viso» (p.23) [e le cose, più o meno, stavano davvero così!].

Un mondo che riscopriva il gusto di deviare il discorso politico verso approdi scostumati e irriverenti. Lo avevano fatto pochi coraggiosi come Li Zhun (già negli anni ’50, lo fa, verso la fine del millennio Wang Shuo (nella sua «letteratura dei teppisti» (liumang wenxue in Italia presente con «Scherzando col fuoco», Mondadori 1998, Wande jiu shi xintiao 1989) e lo fa Liu Heng, mettendo in bocca a Zhang Damin, il brav’uomo protagonista di questa saga fatta …di niente, un singolare rimprovero al fratello colpevole di rumoroso ardore durante le sue performances sessuali: «…In tutta serietà devo dirti che gridare a quel modo non è conforme né al sentimento nazionale né al nostro status» (p.45).

E si vena di patriottismo anche la soddisfazione per avere stimolato con opportuna, cinesissima dieta, la montata lattea della adorata Li Yunfang, evitando di buttare quattrini nell’esoso latte in polvere americano, perché al rampollo il prodotto nazionale non piaceva: «Finalmente il latte di sua madre aveva avuto la meglio sul latte in polvere americano. Anzi no! Era stata una tartaruga cinese…a sconfiggere una volta per sempre il trust americano del latte!» ( p.68).

Anche qui ci viene in mente un’altra ironica e irrestistibile critica all’infatuazione per l’occidente e la sua dieta, destinata a determinare effetti nefasti sulle siniche funzioni intestinali, che lo stesso Lafirenza ci proponeva nel 1998 con il bellissimo romanzo breve di Wang Meng, pubblicato per i tipi di Cafoscarina col titolo «Dura la pappa di riso, signor Wang Meng», che credo varrebbe la pena di ripubblicare.

Non possiamo tacere che, nel caso di Liu Heng, l’impennata d’orgoglio suona un poco amara; certo, allora l’autore non aveva modo di sapere che, esattamente un decennio dopo, nel suo paese, partite adulterate di latte alla melanina avrebbero ucciso sei neonati e ne avrebbero intossicati più di 300.000, determinando la condanna a morte di almeno due direttori di fabbrica implicati nello scandalo….

Né lo sapeva il ciarliero Zhang Damin, la cui vicenda si snoda tra avvenimenti quotidiani grandi e piccoli in fondo simili a quella di ciascuno di noi. Sono splendide e commoventi fino alle lacrime le pagine dedicate alla morte prematura della sorella e al legame speciale di quest’ultima col nipotino. Ed è questa la sorella cui vengono donate le tende come lei le vuole, per la stanza della nuova casa, più grande, che non vedrà mai.

In questo romanzo, è peculiare la percezione e la descrizione dello spazio vitale, che occupa un ruolo importante. In una fase di trasformazione rapidissima e violenta degli spazi urbani, il carattere chai «abbattere», vergato di rosso sui muri sbrecciati di abitazioni cadenti, calava a volte più sinistro del tratto di spada dell’angelo primo della strage degli innocenti.

Esso segnava spesso la «deportazione» in case certo più accoglienti, prive tuttavia di memoria e sradicate da ogni tessuto sociale, non luoghi dove era difficile ricostruire la propria identità. E, anche laddove non era così, questo «passaggio» aveva non di rado un valore iniziatico: lo stesso accadrà anche al nostro Zhang Damin.

Ha ragione Lin Yejing quando, dalle pagine del Journal of Tangshan Normal University (Tangshan shifanxueyuan xuebao, n.1, 2015) osserva come in questo romanzo lo spazio assuma una dimensione psicologica precisa e si faccia metafora tanto del sentimento di insofferenza verso la repressione e il controllo di ogni pulsione individuale tanto della serena determinazione e dell’istinto irrefrenabile a lottare per aumentare gli spazi della propria libertà.

Zhang Damin è tra coloro che, da sempre, dalla casa angusta se ne vogliono andare; per lui una abitazione appena più grande rappresenta il coronamento di un sogno inseguito per l’intera esistenza e, come accade spesso per i sogni troppo agognati, correrà il rischio di infrangersi e costerà comunque molto caro.

Non importa, Zhang Damin ancora una volta si riprende: figliolo amoroso e sparagnino, con la vecchia madre portata a spalle lungo i sentieri delle Colline Profumate, guarda fiducioso alla sua “vita felice”. E non c’entra la propaganda.

*Professore di Lingua e Letteratura Cinese, Università di Torino
(Liu Heng, La vita felice del ciarliero Zhang Damin , traduzione di Fiorenzo Lafirenza, Atmosphere libri – Asiasphere, Roma, 2018)