Un cestista Nba che si confessa gay. Primo caso in assoluto nello sport professionistico americano. Con una lettera – copertina sul numero di Sport Illustrated, sacra scrittura dello sport a stelle e strisce. Un vaso di Pandora che si svuota, ma non del tutto. Sono passati alcuni giorni dall’intervista di Jason Collins, 34enne centro ex Boston Celtics, ora ai Washington Wizards, che ha deciso di rendere pubblica la sua omosessualità. Un racconto lucido e toccante. La scoperta dell’omosessualità a Los Angeles, la confessione alla zia magistrato di San Francisco, il rapporto con le donne, il basket come terapia. E la maratona di Boston, detonatore per la liberazione. Collins, costretto ad alzare la mano perché nessuno aveva avuto il coraggio, prima di lui. E l’America, dopo la rincorsa – forse scontata – all’endorsement al coraggioso di turno, orgoglio di un Paese che crede di accogliere e tutelare le diversità, ora s’interroga. Lo sport professionistico, le quattro leghe principali, Mlb, Nba, Nfl, Nhl, microcosmo plastico della composizione sociale del Paese, è pronto per accogliere, vivere l’omosessualità negli spogliatoi lontano dalla luce rossa delle telecamere e sui divani di casa?

Se lo è chiesto anche Collins, nella lettera, micropolaroid di un atleta che sa giocare duro, che ha vissuto l’omosessualità come autocensura, esercizio di autocontrollo. Uno strumento – filtro tra sé e gli altri, per evitare il pregiudizio. Per lui, la telefonata di un orgoglioso presidente Obama. E il tweet immediato dell’ex capo della Casa Bianca Bill Clinton (sua figlia Chelsea aveva studiato con Collins a Stanford University). Assieme al sostegno di Kobe Bryant, Lebron James, Shaquille O’Neal. E altri pezzi grossi (o ex) della Lega. «Credo che il Paese sia pronto per avere un giocatore di basket omosessuale», ha spiegato Collins dopo il coming out. Più in generale, sulla stampa americana Jason Collins è stato paragonato da molti a Jackie Robinson, il primo atleta di colore a giocare nel baseball pro’. Evidenziando il ruolo degli sportivi, l’impatto sociale e politico dei loro comportamenti, specie se educativi. Solo che la tolleranza verso gli omosessuali, come Collins, implicherebbe una vera rivoluzione copernicana che riscriverebbe molte leggi non scritte del cosmo Nba. Che Collins conosce bene. È il suo mondo da 12 anni. Lui non è un attore principale ma un caratterista. Uno di quelli che gioca pochi minuti a sera. Che usa il fisico per fare falli, anche duri. Per intimidire, come ha ammesso nella lettera a SI. Un pesce nell’acqua della Nba, lega con campioni come pochi ma cinica, verticale, a tinte machiste, con alto tasso di testosterone dentro e fuori al parquet. Che ha impiegato molti anni, per esempio, ad accettare i cestisti stranieri, specie gli europei. Universo a predominanza afroamericana. Con atleti che provengono da realtà complicate, violente. E che, finiti nelle prime file dopo un contatto sotto i tabelloni, sono aiutati a rialzarsi solo dai compagni di squadra. Mai degli avversari, sarebbe un segno di debolezza, come dice la legge dello spogliatoio.

Una Lega darwiniana, vince chi si adatta meglio alle consuetudini. In cui si mischiano episodi di omofobia (addirittura Kobe Bryant multato per 100 mila dollari due anni fa per aver detto «frocio» a un arbitro durante una partita tra i suoi Los Angeles Lakers e i San Antonio Spurs). Anche perché molti cestisti arrivano da realtà collegiali in cui le matricole sono costrette a vagare per il campus con lo zainetto di Hello Kitty sulle spalle. A subire riti iniziatori, discriminatori. E se per Collins era prevedibile la pioggia di tweet degli imbecilli di turno, tra insulti, minacce di morte, incitamento all’omicidio, ecco l’attacco del talk show man Rush Limbaugh, (tutti i giorni, week end escluso, tiene una trasmissione di tre ore su Abc radio con un’ audience di un centinaio di milioni di persone, un terzo degli americani), che ha duramente criticato Obama per il sostegno all’atleta.

Non un caso isolato. Spia del disagio che Collins dovrà affrontare. E chi verrà dopo di lui a vivere liberamente la sua sessualità. E dire che Mark Cuban, enigmatico proprietario dei Dallas Mavericks, anche stavolta ci ha preso, avendo pronosticato qualche anno fa che presto un giocatore Nba avrebbe fatto coming out, rivelando la sua omosessualità. Senza contare che pochi giorni prima dell’outing di Jason Collins era la volta di Brendon Ayanbadeio, 36enne dei Baltimore Ravens (Nfl) che al quotidiano Baltimore Sun rivelava che quattro suoi colleghi stessero riflettendo sull’opportunità di rendere nota in pubblico la propria omosessualità. «Succederà prima di quanto si pensi» diceva Ayanbadeio, favorevole in passato alle unioni gay. «Stiamo parlando con un gruppo di giocatori che stanno valutando la situazione. Stiamo parlando con 4 giocatori, almeno. Stanno provando a organizzarsi per fare coming out tutti insieme, nella stessa giornata.

[do action=”citazione”]Prima dell’outing di Collins, il cambiamento era già nell’aria nello sport Usa da qualche mese, prima con l’iniziativa della Nhl per lottare contro l’omofobia, poi con la confessione di Brittney Griner, la fuoriclasse del basket femminile che pochi mesi fa aveva addirittura «rischiato» di passare alla lega maschile grazie alle sue doti agonistiche[/do]

La manovra collettiva «sarebbe un grosso colpo e toglierebbe la pressione dai singoli. Sarebbe una giornata storica». E la Nfl è probabilmente anche più dura della Nba. «E’ chiaro che ci sarebbero delle ripercussioni, ma sarebbe meglio se potessero condividere tutto questo».

E il tema dell’omosessualità nel football è stato uno degli argomenti che hanno caratterizzato la vigilia dell’ultimo SuperBowl.

Chris Culliver, il cornerback dei San Francisco 49ers è incappato in una serie di infelici dichiarazioni quando è stato chiamato a rispondere sull’eventuale presenza di giocatori gay nello spogliatoio. Dopo lo scivolone, Culliver si è scusato e, su indicazione della sua franchigia, ha collaborato con un Gay Support Center. Mai tolleranza preventiva, sempre pentimento nei titoli di coda.