L’isocrazia, per dirla con gli autori, capace di dare qualità e forza al processo democratico. È una realtà che non deriva fatalisticamente dalla frammentazione del sociale. Sarebbe anzi l’ora di sottrarre la frammentazione al campo della sociologia per metterla nel cuore della politica, essendo quella il principale veicolo delle disuguaglianze.

Una legge sulla rappresentanza e il valore erga omnes della migliore contrattazione non unificherebbero il sociale? E una riforma fiscale che recuperasse generalità e progressività, e la chiusura delle enormi falle dell’universalismo nella sanità e nell’istruzione non farebbero altrettanto?

La cittadinanza partecipata tuttavia rimarrebbe, perché essa deriva da un processo di maturazione del sociale nella soggettività e negli strumenti. Un processo che, certo, si afferma anche perché incontra un vuoto che sente di dover colmare.
Non dobbiamo riferirci solo alle vicende ben rilevanti delle Sardine.

Un esempio. Nel grande stabilimento Amazon di Castel San Giovanni un gruppo di giovani dipendenti si rivolse alla Cgil per avere un aiuto tecnico. Non sopportavano tante cose della loro vita. Ad esempio, che la turnazione fra giorno e notte fosse decisa paternalisticamente dal responsabile del personale con il metodo one to one, senza criteri equi e oggettivi.

Di qui, vertenza, lotta, accordo, referendum. Approvazione larghissima, anche da parte di molti che avevano da rimetterci. Arrivarono telefonate da tutto il mondo. Era l’unico caso in cui Amazon cedeva almeno in parte a una logica non sua. Fu un fuoco, dunque, ma non incendiò la prateria!

Così succede spesso alle esperienze di “cittadinanza partecipata” che già esistono. La potenza, quando si esprime, ripiega nella potenzialità. Una potenzialità, tuttavia, finalmente accertata e riconosciuta. Non un fuoco fatuo, dunque, ma semmai brace che resta sotto la cenere.

Non conosco esperienze di protagonismo sociale che non amerebbero sentirsi in un campo vasto e plurale segnato da valori e dentro a un progetto generale nel quale agire in autonomia.

Un amore non ricambiato: questo è il rapporto con la politica. E qui si affaccia, come leggiamo da Nadia Urbinati, e da Gianni Cuperlo sul manifesto di ieri, la questione del partito. Pesante, leggero. Ma il peso in proporzione a quale funzione?

L’idea di un partito che essendo presente in ogni luogo organizza il sociale è un anacronismo nostalgico e irreale. L’idea di un partito che si addensa solo nei piani alti delle istituzioni e della comunicazione è parte della malattia.
Ci vuole un partito che promuova uno spazio aperto e plurale e lo delimiti affermando valori e discriminanti e che costruisca il progetto nuovo per il paese.

Nel fare questo, un partito che incoraggi ovunque una cittadinanza attiva e abbia cultura, linguaggi e organizzazione per mettersi in reciprocità col sociale (un partito che sia anche infrastruttura, dicevo da segretario, non senza accorgermi di qualche sorriso di compatimento).

Siamo ben lontani da tutto questo. Ci vorrebbe il coraggio di organizzare un luogo per discutere del progetto e del soggetto di una sinistra nuova. L’alternativa che molti sembrano preferire è attendere gli eventi, ben fermi sulle gambe. A me non sembra la soluzione.