Ed è scissione. Con ritardo, si registra un esperimento fallito. E si dice addio a un capo che altri danni presto procurerà alla democrazia in crisi. Nei media c’è chi lascia cadere sulla testa dei ribelli l’accusa di nichilismo. Per screditare i fuggiaschi, alcuni parlano di una scissione senza principi. Eppure al Testaccio gli insorti avevano riscoperto, come in Inghilterra, bandiera rossa.

Non c’entrano però i demoni del ‘900: la foto simbolo, di un evento che pure prospettava una rivoluzione socialista, era quella che riprendeva il Veltroni del Circo Massimo. Confusi pensieri. Nulla del Pd delle origini può aiutare chi vaga alla ricerca di una identità perduta. È il Lingotto l’origine del male, non la soluzione. Allora Veltroni stigmatizzò il conflitto come una brutta malattia, relegandolo nella cassapanca dell’800. Poiché lo scopo del capitale è solo il capitale stesso, senza il conflitto nessuno può sollevare questioni di giustizia per momenti di eguaglianza. Rinunciare al conflitto significa uccidere la politica e regalare il potere alle agenzie del capitale. Ovvero ai demoni del postmoderno.

Le radici del fallimento risiedono nelle scelte originarie del Lingotto in favore di un partito incolore e senza classe. La sua identità era fissata nel maggioritario e nelle primarie. Un collante fittizio che non poteva durare. Ci sono componenti del vecchio Pci che nell’amalgama si sentono a loro perfetto agio. Sono i notabili del partito degli eletti. Fassino, Chiamparino e Renzi, che si contendono la benedizione di Marchionne, costituiscono un amalgama riuscito. I vecchi miglioristi si trovano bene con il rottamatore visto come un modernizzatore. E Poletti è l’espressione di un tradimento delle ragioni sociali dello stesso riformismo emiliano che cede di schianto al fascino padronale del renzismo.

Per chi non si rassegnava a questa resa ingloriosa la rottura era inevitabile. La differenza tra Veltroni e Renzi non è nei principi, cioè nella visione aconflittuale del mondo, nella esaltazione dell’impresa, che è comune. Nemmeno nella cultura istituzionale e politica c’è una frizione: entrambi sognano il presidenzialismo e inseguono le primarie come unzione mistica in un partito liquido. Non a caso i media e i poteri economici che sostengono Renzi sono gli stessi che hanno accompagnato l’ascesa di Veltroni.

Quale è allora la differenza? Con l’alleanza capitolina tra il mattone e l’immaginario, tra le notti bianche e il cemento nero della città infinita del degrado speculativo, Veltroni aveva costruito le basi per la leadership nazionale. Il suo però non era ancora un partito personale, cioè si basava sul soccorso dei poteri forti, ma il leader non aveva costruito un potere economico autonomo. Con la sconfitta politica abbandonò per questo lo scettro.

Le fondazioni, le donazioni dei poteri finanziari, l’influenza del comitato d’affari della piccola borghesia toscana, specializzata nel cucire rapporti con banche e imprese all’ombra delle istituzioni conquistate, assicurano invece al leader un capitale a sua disposizione per edificare un partito personale che non obbedisce a canoni solo politici. Per questo tratto proprietario-personalistico del Pd non è stata ordinata la sola operazione politica decente dopo il clamoroso plebiscito: licenziare il capo di un non-partito, odiato dal popolo.

Il Pd salta, oltre che per il rifiuto delle degenerazioni di un partito personale, per altre due ragioni. La prima è la grande crisi economica alla quale il Pd risponde con il Jobs Act. Cioè con la potenza illimitata del capitale, padrone assoluto della vita del lavoratore, costretto a vagare in solitudine, e privo di diritti, tra i fantasmi della concorrenza. Già con Veltroni (emblematica fu l’operazione Calearo) il Pd aveva rinunciato ad ogni radicamento nel mondo del lavoro. Con Renzi la rottura è però definitiva e totale perché simbolico-culturale-giuridica. Dopo il Jobs Act si rompe la coalizione sociale del Pd, partito dei Parioli. E la prima area a saltare fu l’Emilia Romagna, con la diserzione di massa delle consultazioni regionali.

La seconda causa della catastrofe del Pd risiede nell’attacco alla costituzione. Il plebiscito di dicembre, convocato per consolidare il potere personale sulle tracce di uno scivolamento populistico e autoritario, ha segnato una cesura storica irreparabile. Ad essa il Pd reagisce con la provocazione della accelerazione verso i riti della nuova incoronazione mistica del capo caduto nel baratro.

Non serve a nulla evocare i demoni del ‘900 di fronte a ribelli che impugnano le armi per garantire la continuità del governo. Proprio questa aporia, di una rivolta per la stabilità, consiglia di gestire con accortezza tattica i tempi delle sinistre, variamente collocate nella gestione dei passaggi parlamentari, senza le accelerazioni perniciose. Organizzare il proprio campo, e al tempo stesso aprire con duttilità alla gestione delle sfide elettorali con una strategia aperta e condivisa: questo è il ruolo di una sinistra plurale che, pur nella differenza dei percorsi, non rinuncia a una vocazione egemonica.

La domanda di Gramsci deve sempre risuonare nei soggetti della sinistra, in tempi di crisi: come non diventare momenti che contribuiscono, loro malgrado, alla decomposizione generale. Una sinistra plurale nei profili organizzativi deve essere capace però di esprimere una convergenza, soprattutto se la legge elettorale la rende di fatto necessaria, come al senato. Una grande coalizione costituzionale, capace di lanciare una credibile alternativa, smentirebbe i censori che, dopo l’implosione del Pd, pronosticano un inevitabile trionfo del M5S.

Il terreno per le destre e il M5S sarebbe in discesa proprio se il Pd rimanesse ostaggio della follia renziana. Una sinistra plurale, non deviata dalla ossessione di trovare immediate soluzioni organizzative, può contendere il consenso ai tre populismi in scena e fare di lavoro e costituzione le bandiere di una ricostruzione democratica.