«Andremo fino in fondo. Vogliamo la verità. Chi ha violato la legge deve pagare». Matteo Renzi non allude all’inchiesta Consip, nella quale, anche al netto della sgradevole intercettazione pubblicata dal Fatto, non risulta che si sia arrivati alla verità. Non si riferisce neppure alla finta querela annunciata e mai sporta da Maria Elena Boschi per le rivelazioni di Ferruccio De Bortoli, evidentemente fondate data la sceneggiata in cui si sono imbarcati governo e Pd. Sciocchezzuole. Quello su cui Renzi pretende verità ed esige severa punizione è la pubblicazione dell’intercettazione della telefonata tra lui e suo padre. Perché «noi abbiamo rispettato la legge. Non abbiamo fabbricato prove false. Non abbiamo pubblicato arbitrariamente atti di procedimenti penali. Non vogliamo mettere il bavaglio agli articoli: ci basta che sia rispettato il codice penale».

Il martellamento congiunto del segretario e del presidente del Pd, Matteo Orfini, somiglia ogni giorno di più a una manovra preventiva. Le elezioni si avvicinano: potrebbero arrivare ben prima della prossima primavera. Renzi è convinto di aver almeno parzialmente recuperato il terreno perduto rispetto all’M5S, che individua come il vero rivale pericoloso, ma sa che il terreno è scivoloso e basta poco per precipitare di nuovo. Mette in guardia per tempo giornali e giornalisti.

L’intemerata del Nazareno scatena però le ire del presidente emerito della Repubblica, già alto protettore poi amaramente deluso del giovane Matteo. Dopo l’affondo in cui Orfini rintracciava nella pubblicazione galeotta addirittura un attacco al cuore della democrazia, tanto per non esagerare, l’ex capo dello Stato aveva rinfacciato ai Savonarola del Pd una dose massiccia di ipocrisia. Ora s’indignano ma quando l’attuale vittima governava, perché non mosse un dito?

Quel che brucia non è l’attacco in sé ma chi lo muove. Napolitano è stato a lungo la principale fonte di legittimazione di Renzi e del renzismo. In qualche misura e nonostante tutto, era il filo che legava il rottamatore a radici che per una parte della base Pd sono ancora importanti. Dunque Orfini replica. Non in prima persona ma ritweettando un cinguettio al curaro di un giornalista «giovane turco», Francesco Cundari: «La pubblicazione a strascico di intercettazioni irrilevanti e/o illegali parte col caso Unipol. E non ricordo altolà di Napolitano allora».

L’ex presidente, si sa, è permaloso e non gradisce. Invia a Orfini le «prove» delle sue prese di posizione anche in quel caso. Poi dirama una nota da accoltellamento: «All’on. Orfini, incerto nella memoria ma pronto ad alimentare insinuazioni malevole ho inviato documenti relativi a quel che dichiarai. Mi auguro che abbia modo di esprimermi le sue scuse».

Scusa? Macchè! Orfini pesca nelle sue riserve di fiele e replica a tono. Affranto perché vengono prese per «malevole» valutazioni «politiche» (l’attacco al cuore dello Stato veicolato dall’intercettazione Renzi) ma le dichiarazioni del presidentissimo «sono relative a un periodo diverso da quello a cui io mi riferivo». Poi c’è stata «una evoluzione positiva» e negli anni di presidenza «un’impeccabile fermezza». Prima però «le cose andarono diversamente».

Lo scambio di stilettate rivela solo quanto logorati siano i rapporti tra il nuovo Pd di Renzi e l’ultimo leader del vecchio Pci. Quanto alle intercettazioni, se del caso, cioè quando colpivano l’avversario, ne hanno usufruito tutti, chi più chi meno gioiosamente. Napolitano ha sempre fatto parte del secondo gruppo. Ma nella politica italiana la prima pietra non la può scagliare proprio nessuno.