Giorgio Orelli è un poeta che non assomiglia a nessun altro: questa è la clausola esemplare del saggio introduttivo di Pier Vincenzo Mengaldo a Tutte le poesie (Mondadori, «Oscar», pp. LXXIX+480, euro 22.00) del poeta ticinese a cura ottima di Pietro De Marchi con la collaborazione di Pietro Montorfani che firma la bibliografia. Nativo di Airolo, nell’alto Ticino, Orelli è mancato novantaduenne a Bellinzona nel novembre del 2013 dopo una vita operosissima di insegnante, traduttore (splendide le sue versioni da Goethe che uscirono in un «Oscar» nel ’74), di critico militante e di studioso (qui basti alludere al suo primo volume riassuntivo, Accertamenti verbali, Bompiani 1978) formatosi negli anni di guerra a Friburgo con Gianfranco Contini, il quale, giusto nel ’44, aveva corredato la prima plaquette dell’allievo, Né bianco né viola, di una memorabile epistola in versi.
E tuttavia sia il magistero di Contini, così vistosamente importante, sia la collocazione geografica tra margine e confine d’Italia e dunque virtualmente debitoria di testualità più centrali, sia soprattutto una coscienza metalinguistica sovradeterminata (si sospettava da taluni che dentro ogni verso di Orelli, data la memoria sommamente ricettiva, ce ne fosse sempre un altro e un altro ancora senza che però si cogliesse la tautologia contenuta in un simile sospetto), insomma il coagulo di indizi tanto numerosi aveva finito in un primo momento con l’iscrivere nel senso comune l’idea che si trattasse di un poeta di grande dignità e rispettabilità ma privo di una propria e aggettante fisionomia. Né lo aveva favorito la precoce inclusione nella celebre antologia di Luciano Anceschi, Linea lombarda (’52), che lo riconosceva tra i più promettenti post-montaliani ma lo collocava ai bordi di una tradizione regionalista e, per così dire, «laghista».
Solo il tempo avrebbe detto che immediatamente alle spalle di Orelli c’era sì Montale ma buon ultimo di una risorgiva che, transitando da Pascoli, si originava dal grande invaso di Dante. E Orelli ci aveva messo del suo serbando una postura defilata, tutelata da un rigoroso understatement, lui altissimo e sempre sorridente, la voce calda e profonda di uomo davvero alla mano, un professore delle medie che nessuno a Bellinzona, per mezzo secolo, aveva mai incontrato se non in bicicletta. Lavorava con riserbo e accanimento, inseguiva il flusso di varianti cautelandosi dal limite inerte della ne varietur perché, da buon continiano, riteneva più importante il fare del già fatto e alla statica della compiutezza anteponeva la vitale dinamica della imperfezione. Contava, evidentemente, sui tempi lunghi e infatti la sua poesia è apprezzabile nella sua piena originalità (vale a dire nella sua intramata, concentrica, compattezza) soltanto se letta in retrospettiva.
Orelli ha pubblicato in vita sua quattro raccolte appena, L’ora del tempo (del ’62, ma si tratta del collettore-antologia di tutta la produzione giovanile), Sinopie (’77), Spiracoli (’89), Il collo dell’anitra (2001) cui ora se ne aggiunge una quinta e inedita, L’orlo della vita, «un libro-finito non finito» secondo la parola dell’autore, che De Marchi ha il merito di produrre riordinandolo fra i testi già anticipati in riviste e miscellanee (2003-2013) e quelli, viceversa, affidati a redazioni non ufficialmente compiute cui si sommano, in appendice, versioni da due tra i classici più amati, Lucrezio e Goethe.
In una delle poesie remote, «Sera a Bedretto», c’è già potenzialmente lo sviluppo di Orelli. Giocatori di carte in una osteria di campagna e, fuori di lì, come presenze correlative, delle capre che ruzzano: «La capre, giunte quasi sulla soglia/ dell’osteria,/ si guardano lunatiche e pietose/ negli occhi, si provano la fronte/ con urti sordi». È quasi un idillio campestre, chiuso nel giro di pochi endecasillabi interi o spezzati ma incisi, come pure amava dire, a graffito secco mentre il lessico è scabro e appena velato da un pulviscolo allitterante, lo stesso che sarà sempre prelibato da Orelli studioso: qui sono evidenti le virtù primordiali che Mengaldo riconosce nella «attenzione» alla realtà (una attenzione sottilmente decentrata e raffreddata, ai limiti dello stupore) e in un senso di totale traslucida «immanenza». Quanto a ciò, le raccolte successive, specialmente Sinopie e Spiracoli, possono ampliare la gamma linguistica (dal dialetto materno di Prato Leventina, ai gerghi della società affluente, al tedesco), possono dilatare la metrica verso il calco esametrico o la prosa ritmica, possono persino adire la forma-racconto (e si ricordino le notevoli prove giovanili di Un giorno della vita, Lerici 1960) ma non possono mai recidere quella antica radice percettiva: piante, animali, esseri umani popolano la poesia di Orelli senza l’ambizione di essere dei simboli o delle allegorie, sono presenze, figure, voci che si stagliano ad altezza d’uomo e si muovono nell’orizzonte d’attesa della pura normalità.
Lo spazio e il tempo le immettono al presente e nel campo acustico/visivo con una naturalezza da brividi proprio perché nulla (nessuna metafisica, nessun credo, nessuna poetica predeterminata) le vorrebbe mai lì. E si direbbe che esse esistono, o che tornino a farlo, soltanto come tracce o impronte di una vita che è o che comunque è stata vera, dopo tutto e nonostante tutto. (L’orlo della vita, il titolo terminale e dantesco, dice per contrappasso, evocando il vuoto e l’abisso, l’immensità del non-essere che avrebbe potuto normalmente inghiottirle).
Sembrerà strano ma se c’è un poeta cui si addice il paradosso di Brecht, secondo cui le poesie politiche parlano in realtà di alberi, costui è proprio Orelli che apertamente diffidava della vena oratoria e temeva «la rabbia, il risentimento» (come afferma negli appunti di Quasi un abbecedario, a cura di Yari Bernasconi, Casagrande 2014). La sua poesia è politica non perché da certi epigrammi escano punte satiriche o sarcastiche, né perché ha voluto lui tante volte ribadire d’essere un compagno di Renzo Tramaglino (e cioè un partigiano dell’eguaglianza), ma perché le presenze che si iscrivono nella sua testualità, quelle voci, quei volti dileguanti, quei medesimi fruscìi vegetali o animali, nella loro penuria, nella loro spoglia finitezza, testimoniano di una perfezione che denuncia di per sé gli automatismi percettivi, le gerarchie di rango e di senso, di quanto si è avvezzi a chiamare la normalità.
Nel suo libro terminale si leggono alcuni versi dal titolo «Farfalla»: «Sembra eccessivo l’odore/ di gelsomino in cui vo ringioito/ da una farfalla/ bianchissima che vòlita/ vantandosi di nulla/ e in cima alla salita controvento/ sbietta verso un giardino,/ si posa su un corimbo/ di melo, si fa fiore». Orelli sembra tornato allo stampo più antico, a una specie di idillio, l’immagine segue il moto lieve quasi di un haiku, che il metro asseconda, la lingua assapora i nomi delle piante e si imbeve della loro patina in evidente stato di soddisfazione. Ma non c’è affatto idillio, semmai c’è un rito lento, inesorabile, di metamorfosi per cui la farfalla che sembrava svagata e perduta a un certo punto cambia direzione, trova il proprio ramo, si confonde con un fiore e, alla lettera, di colpo si fa fiore: nulla lo lascerebbe immaginare ma questo è uno dei modi possibili, e tra i più singolari, per alludere senza alcuna retorica a ciò che un giorno fu detto il sogno di una cosa.