«È stato toccante vedere un bambino dare una tazza di caffè a un poliziotto in una fredda serata. Un piccolo atto di compassione e gentilezza che sarebbe stato tipico di mio padre». Sono parole di Zindzi, la figlia più piccola di Mandela e di Winnie Madikizela Mandela, l’ex moglie, quest’ultima, da cui Madiba ha divorziato nel 1992. Per i famigliari, continua Zindzi, è di sostegno la folla che si riunisce fuori dal Mediclinic Heart Hospital di Pretoria per rendere omaggio al fondatore della democrazia in Sud Africa, in terapia intensiva dall’8 giugno. Ferisce invece chi si assiepa nei dintorni in attesa della sua morte o dei devoti che pregano perché la famiglia abbia la forza di «lasciarlo andare».

Le voci sulla morte dell’anziano leader che circolano su social network come Twitter o generalmente sul web, sono insensibili e feriscono oltre a «rimuovere tutto il senso di umanità intorno a lui», come ha sottolineato ancora Zindzi, rendendo noto che la famiglia non ha nessuna intenzione di lasciarlo andare né di prendere in considerazione l’eventualità di interrompere le cure. Lasceranno piuttosto che sia «Dio e la natura a fare il loro corso». Seduta accanto alla figlia, nel giardino della casa di Soweto, Winnie aggiunge che spesso Madiba apre gli occhi e stringe la mano. «Pur tuttavia – continua la donna, sebbene nella cultura Xhosa non è permesso per tradizione parlare in anticipo della morte di un anziano – «dobbiamo essere realisti sul suo stato di salute». Ribadendo però quanto già Zindzi aveva dichiarato, ovvero l’opposizione «dei famigliari di intervenire nel naturale corso degli eventi affidati invece alla volontà divina». «Le parole non possono descrivere il nostro dolore e dispiacere quando la gente parla o scrive come se lui fosse già morto. E a dire il vero, nei giorni scorsi ha mostrato un miglioramento», sottolinea la ex moglie dell’ex presidente.

Winnie – più volte imprigionata mentre Madiba era in carcere – di Mandela è stata la compagna per più di 30 anni, come moglie e nella lotta contro il sistema dell’apartheid. Zindzi invece, aveva appena 4 mesi quando il padre venne arrestato, 4 anni quando venne condannato al carcere a vita e 15 quando poté per la prima volta incontrarlo nella prigione di massima sicurezza di Robben Island. Un incontro di cui racconta lo stesso Mandela nel suo Lungo cammino verso la libertà. Le due donne parlano così, lontano dalle telecamere, a due cronisti del Cape Argus – un quotidiano locale – che le hanno incontrate a Soweto e pubblicato la conversazione sul numero di ieri. Non è facile scrivere di Mandela senza correre il rischio di andare oltre Mandela. Noi cerchiamo di farlo nel rispetto dell’uomo prima ancora che dell’eroe, tralasciando volutamente dettagli clinici sulla sua ospedalizzazione. Ci piace invece riportare la visita di tre suoi compagni di prigionia, gli ultimi ancora in vita tra quelli che con lui rischiarono la condanna capitale durante il processo di Rivonia: Ahmed Kathrada, Andrew Mlangeni e Denis Goldberg. Di quest’ultimo Mandela ha scritto come, dopo il verdetto della corte, venne separato dagli altri «perché lui era bianco e doveva stare con i bianchi». Ricordando, come in altre occasioni, che l’apartheid era apartheid anche in carcere.