Nel 1961, il filosofo Emmanuel Lévinas pubblicava un libro dal titolo Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità. Fra gli altri, in quell’opera si dedicava ampio spazio al tema del «volto» come porta d’ingresso all’etica e alla vera comprensione dell’Altro. Scriveva Lévinas in quelle pagine: «Noi chiamiamo volto il modo in cui si presenta l’Altro. Questo modo non consiste nel mostrarsi come un insieme di qualità che formano un’immagine. Il volto d’Altri distrugge ad ogni istante e oltrepassa l’immagine plastica che mi lascia».
Di fronte all’alterità intesa in modo oggettivo come un’immagine passiva che posso guardare, manipolare, usare, il volto produce una frattura, dischiude una dimensione di partecipazione e responsabilità per cui l’altro diventa anche affar mio, destino che mi coinvolge e a cui non posso voltare le spalle. Attraverso il volto, l’Altro mostra la sua umanità, un’umanità che in fondo è quella di tutti e che per questo ci riguarda da vicino. Come a dire: attraverso l’incontro apparentemente superficiale con il volto di un’altra persona, l’io individuale viene sospinto nell’orizzonte infinito della collettività, dove, come ricordava uno dei fratelli Karamàzov di Dostoevskij, «noi siamo tutti, nei confronti di tutti, colpevoli, e io più di chiunque».
Insomma, per Lévinas una volta incontrato l’Altro la questione etica diventa presente alla coscienza dell’individuo, il quale inizia a sentire la responsabilità non solo per il suo destino, ma anche e soprattutto per quello di tutti gli Altri.
E non è un caso se nel nuovo libro di Giuliana Bruno Superfici A proposito di estetica, materialità e media (Johan & Levi, pp. 320, euro 38,00) diverse righe sono dedicate proprio al tema del volto. Il saggio, infatti, si interroga su quello spazio di mediazione relazionale, artistica e sociale che è la superficie. Superficie intesa come spazio d’incontro e di messa in discussione dei propri confini, come zona franca in cui poter sospendere i giudizi e aprirsi a nuove possibilità. Spiega la studiosa napoletana: «La “superficie” ha una radice latina composta da super (sopra) e facies (faccia, volto). Indica la “faccia esterna”, il contorno di un corpo o di un oggetto. La superficie si configura dunque come un’interfaccia, un elemento di separazione e connessione tra spazi corporei. Mi rivolgo al significato profondo di questa super-facies per parlare di una forma d’incontro “mediata” materialmente dalle superfici dermatiche e per approfondire l’idea che la superficie diventi tramite, anche di affetti, emozioni e sentimenti».
Una superficie, dunque, per niente superficiale. Anzi, è proprio in superficie che Bruno ritrova il senso delle arti contemporanee e, più in generale, il luogo d’interazione prediletto dalla società del nostro tempo.
Superfici si presenta così come un excursus al tempo stesso teorico e storico-critico. Per ogni tema e per ogni capitolo, a un’introduzione speculativa seguono retrospettive particolari di artisti, architetti e cineasti, in un movimento descrittivo che va dall’astratto al concreto e che aiuta il lettore a trovare dei riferimenti puntuali alle riflessioni di Bruno.
Il libro è suddiviso in quattro parti: «Trame del visuale», «Superfici di luce», «Schermi di proiezione» e «Materiali dell’immaginazione». E a ogni parte corrispondono quattro luoghi superficiali specifici: tessuto, proiezione, schermo e immaginazione.
Il primo capitolo svela subito uno degli intenti di Superfici: sfatare il mito secondo cui ciò che appare in superficie, ciò che si presenta visivamente come immagine, sarebbe qualcosa di secondario e non essenziale. In realtà, ciò che appare come ordito visuale rappresenta in seconda battuta qualcosa come un «paesaggio». Paesaggio dell’anima, in particolare. Il riferimento principale di Bruno è il saggio La piega di Deleuze del 1988. Per il filosofo francese, la piega diventa simbolo di un paesaggio affettivo dove «lo spazio non è più determinato, è diventato lo spazio qualsiasi identico alla potenza dello spirito». Così, ciò che appare, per esempio, sul tessuto di un abito rivela subito una geografia emozionale ben precisa: dalle sue pieghe si potranno infatti intuire storie personali, attitudini caratteriali e via dicendo. Un caso concreto in cui dalla superficie emergono texture di vita vissuta e occasioni per condividere e rimanere in con-tatto.
Con i capitoli secondo e terzo, Bruno riflette sul concetto di «proiezione», applicato alle discipline dell’architettura e delle arti visive. Anche qui, gli schermi dei nostri cinema e gli «abiti» che rivestono edifici e palazzi diventano lo spazio materico attraverso cui la società elabora e archivia le proprie esperienze di tempo e memoria. Al contrario, verso il futuro dell’immaginazione è proteso l’ultimo capitolo «Materiali dell’immaginazione». Come nel profilo di una città, secondo Bruno l’immaginazione è favorita e stimolata dalla superficie degli ambienti architettonici che la circondano. Ciò che le appare a prima vista schiude nuove possibilità di azione e costruzione, offrendo l’opportunità di figurarsi paesaggi altri e ancora inesplorati, sempre però partendo dal con-tatto originario e superficiale dei sensi e del senso.
In ogni caso, la prospettiva di Bruno rimane coerente e precipua: intorno alle superfici di schermi, architetture e relazioni prende vita la trasmissione del sapere e della memoria collettivi. Così, anche nell’epoca del virtuale e dei display digitali, l’esperienza dell’alterità tanto cara a Lévinas continua ad affacciarsi nel volto delle superfici che ci circondano. Un volto disegnato in ogni istante dall’uomo con le sue attività artistiche, con i suoi momenti d’incontro e condivisione. E anche quando sembra che tutto scorra via troppo velocemente il libro di Bruno ci ricorda che delle nostre azioni così come delle nostre emozioni possiamo sempre rinvenire la presenza. Anche a un primo sguardo. Anche solo osservando il mondo in modo «superficiale».