La rivoluzionaria organizzazione strutturale della Sonata n. 13 di Beethoven, Quasi una fantasia, in mi bemolle maggiore, ascoltata e riascoltata «come un’ossessione», ha fatto da colonna sonora a Ariana Harwicz nella stesura di Ammazzati amore mio (traduzione di Giulia Zavagna, Ponte alle Grazie, pp. 168, e 14,00) dettandone il ritmo delle letture a voce alta.
Nata a Buenos Aires, Ariana Harwicz dal 2007 vive tra il piccolo borgo medioevale Saint Satur e Parigi, dove ha cominciato la sua carriera letteraria: «La mia scrittura è frutto del mio essere straniera», ha detto. Smentendo quei critici secondo i quali gli autori migranti finiscono per adottare il punto di vista del paese in cui hanno scelto di vivere, Harwicz ha sostenuto che, per quanto la riguarda, mettere radici all’estero implica «cambiare il modo in cui guardi il tuo paese». A lungo i suoi libri non hanno trovato traduzione in Francia, ma i riconoscimenti della critica internazionale non hanno tardato altrettanto e le traduzioni si sono presto moltiplicate.
Dopo la prima uscita in Argentina nel 2012, Ammazzati amore mio ha goduto di una movimentata vita editoriale, passando anche attraverso diversi adattamenti teatrali. È stato l’esordio di Harwicz, e ha inaugurato la sua «trilogía de la pasión», che esplora le relazioni tra madre e figlia transitando senza soluzione di continuità dalla perversione alla tenerezza, dal disprezzo all’umorismo. Nel tempo, la fisionomia dell’autrice si è andata precisando per la sua voce aspra, e per la radicalità di una prosa che non conosce mezze misure espressive.
La protagonista che Harwicz mette in scena vive in una casa di campagna con suo marito e un figlio neonato; non avverte amore per il bambino e sente che questa mancanza la rimanda all’esperienza di chi «d’un tratto si ritrova senza un braccio o senza un occhio».
L’esistenza tragica della donna scorrerà a contatto con una natura selvaggia, nella prigione di un bosco in cui il proprio Io si incarna, come a cercare riscatto, in un cervo che «sa vedere la mia tristezza infinita».
L’amarezza della maternità detta all’autrice espressioni di inusuale violenza dietro un’esistenza apparentemente ordinaria, espressioni rese dall’autrice con un linguaggio che ha in sé componenti poetiche e altre gergali, inframezzate da numerose onomatopee, che la traduttrice restituisce con sensibilità linguistica. Harwicz è anche drammaturga: ce lo ricorda la dimensione orale della sua scrittura in cui i dialoghi sono risucchiati nel mulinello di pensieri monologanti.
Nel mettere in discussione la felicità che dovrebbe sprigionarsi dal diventare madre, il romanzo evidenzia le estreme conseguenze di una crudele imposizione sociale, mentre quella stessa obbedienza al politicamente corretto, che per molti è uno spazio protetto da cui osservare la realtà, per Ariana Harwicz è responsabile di generare «arte infame».