Parlare dell’Ungheria vuol dire oggi affrontare il ventre molle e nero della costruzione comunitaria europea. Nella cornice del conflitto intestino, tra paesi del sud e del nord dopo l’esplodere della crisi finanziaria del capitalismo internazionale scoppiata negli Stati Uniti e da lì diffusasi nel Vecchio Continente. Mentre, a pochi passi, riecheggiano gli scontri armati in Ucraina, edizione di una nuova guerra fredda alimentata dall’unica reale costruzione occidentale, l’Alleanza atlantica, contro non più il comunismo, sepolto tra le rovine dei paesi a socialismo realizzato dell’est, ma contro il peso politico e soprattutto economico della rinata Russia (nonché della Cina).
È su questa specificità che contribuisce a fare luce, per la prima volta, il saggio L’Ungheria di Orban, rigurgiti nazionalisti e derive autoritarie di Massimo Congiu (Ediesse, pp. 120, 10 euro).

Perché ventre molle e nero? Perché le risposte che il potere ungherese – il premierato di Viktor Orbán e del suo partito di destra Fidesz – dà alla crisi e alle domande europee che emergono sembrano contenere l’intero e inconcluso processo politico dei nostri giorni. C’è una Europa dell’est che con miopia qualcuno, nostalgico di un 1989 tramontato da 25 anni, continua a vedere come «urlante libertà» quando da un quarto di secolo quelle realtà sono interne, e subalterne, ai processi politici ed economici del neoliberismo di mercato. Così come da un quarto di secolo, a deriva della precedente subalternità «sovietica», sono il baluardo militare della Nato, con partecipazione – come l’Ungheria – a tutte le guerre sporche delle coalizioni occidentali (Balcani, Afghanistan, Iraq).

In cerca di legittimità

Paesi dell’est dall’incerta fisionomia, che cercano legittimità dagli istituti di governance internazionali per imporre le diseguaglianze del neoliberismo, anche con la riduzione degli spazi della democrazia rappresentativa in profonda crisi, e che si avvantaggiano di forme sempre più necessarie di revisione della storia per fondare un «consenso di patria» contro l’idea di un’Europa sovranazionale. Con in più la convinzione a est di far parte di una Europa di serie B che agogna un riscatto separato.

Accade in Ungheria che una nuova destra, che ha preso spazio dalle disavventure di una sinistra di governo incapace e impossibilitata a far pagare il prezzo della crisi ai propri cittadini, sia diventata improvvisamente popolar-nazionale – il «partito della nazione»? -, con l’emergere di un uomo solo al comando, qui esplicitamente di destra: è Viktor Orbán, ormai al governo da solo, da due anni, con il suo partito Fidesz. Due anni «proficui» nei quali ha avviato un «regime»: ha promulgato una Costituzione di stampo nazionalista, richiamando al comune destino etnico i magiari sparsi in altri quattro stati nazionali europei, fino a dar loro il destabilizzante diritto di voto alle elezioni ungheresi nella pericolosa conferma di una patria etnica magiara nel cuore dell’Europa centrale; attraverso un Parlamento, ridotto di più di un terzo nel numero dei deputati, e con abile premio di maggioranza elettorale al partito vincente, prefigurazione del partito personale e unico il Fidesz; avviando contestualmente una nuova legge sulla stampa con tanto di organo preposto di controllo; aggiungendo l’obbligo per gli insegnanti di ogni ordine e grado di aderire ad un ordine professionale patriottico; e con il Codice del lavoro modificato, dove il lavoro non è più un diritto ma un dovere, a vantaggio delle associazioni imprenditoriali dei padroni e a svantaggio dei lavoratori, a cominciare da quelli pubblici che ora possono essere licenziati a piacimento; con la messa fuori legge della possibilità di abortire per le donne, e il riconoscimento della famiglia solo se tra uomo e donna. E il dialogo sociale è cancellato, spiega nell’importante intervista presente nel volume Péter Pataky, presidente della Confederazione nazionale dei sindacati ungheresi che evoca uno spettro che conosciamo: Orbán ha ereditato dai governi di centrosinistra l’impegno nella costruzione del capitalismo e soprattutto il pessimo rapporto con i sindacati dei lavoratori.

Un nuovo stato autoritario di destra, dunque. Che però, ecco il punto, intercetta la crisi del sistema capitalistico e il malcontento contro l’Ue come se fosse ancora l’Unione sovietica. Fino a proporsi – nonostante Budapest abbia ricoperto la presidenza europea per il suo semestre – come antagonista all’Unione europea e all’opposizione degli altri organismi internazionali, a cominciare dall’Onu perché protesta per il nuovo risorgente antisemitismo anche perché scrittori antisemiti sono consigliati nei programmi scolastici statali e soprattutto per la discriminazione dei Rom. Un nuovo regime si agita perfino contro il non-patriottico Fondo monetario internazionale e contro i «banchieri internazionali». Con l’obiettivo di una rinazionalizzazione ungherese dell’economia, attraverso una chiamata di responsabilità etnica al capitalismo magiaro. E un occhio immediato al controllo di alcuni settori da nazionalizzare in questa ottica, come la scuola e la sanità, i fondi pensione e alcune branchie dell’energia, precedentemente privatizzata proprio dai governi di centrosinistra, per la quale apre spregiudicatamente alla nuova Russia.

Non è populismo. È una forma specifica di euroscetticismo che rasenta l’alternativa nazionalista di Stato delle patrie europee. Spiega infatti la filosofa ungherese Aghes Heller che Orbán non si rivolge al popolo se non in forma oratoria e retorica, perché il suo vero interlocutore è la borghesia: siamo al populismo elitario per l’evocazione di un improbabile rinascente capitalismo nazionale ungherese; verso il quale offre addirittura la possibilità dello stato imprenditore (di destra) come se fossimo negli anni Venti-Trenta del secolo passato. Ecco il revisionismo storico attivo della destra dell’est, che agisce da collante politico-economico. Valga per tutti la vicenda del monumento per ricordare l’occupazione nazista dell’Ungheria nel 1944, voluto a tutti i costi da Viktor Orbán soprattutto perché con questa celebrazione ha falsificato tutte le responsabilità del regime ungherese di Orty all’epoca alleato di Hitler e delle Croci frecciate, le famigerate milizie neonaziste magiare, nella repressione e deportazione della comunità ebraica. Un revisionismo storico che vive all’ombra di un Occidente altrettanto impegnato a rivisitare la storia nella pratica militar-industriale della continuazione della guerra fredda e della sua ideologia.

A destra della destra

Infine Jobbik, La formazione dell’estrema destra neonazista e razzista che alle ultime elezioni ha preso più del 20%. Che è sovranista-etnico-nazionalista, al punto da criticare il ruolo atlantico di Budapest, e allo stesso tempo xenofoba (ha ispirato la nascita della formazione paramilitare Guardia ungherese, poi sciolta) contro i rom. Da notare che l’Istituto di ricerche storiche nazionali Veritas, delegato a revisionare la storia – sia del ’56 ungherese che del periodo nazi-fascista – è diretto da Sandor Szakaly, uno storico legato a Jobbik. Sono i degni interlocutori del premier Orban, prima sostenuto da Jobbik ora passata all’opposizione ma sempre pungolo propositivo, da destra. Sempre contro la sovranazionalità dell’Europa, ben prima dell’affermarsi del Front national in Francia e dell’Ukip di Farage in Gran Bretagna, che travalica l’euroscetticismo e si propone come modello. Pericoloso. Ma con «consenso» popolare. Come? Con la promessa di edificare stadi di calcio – a magiara memoria – almeno per ogni città ungherese.