Creare un collegamento tra immigrazione e coronavirus: detto, fatto. E poco importa che quel collegamento non abbia alcun fondamento. Piegare la realtà a suo vantaggio è sempre stata la specialità di Viktor Orbán. Questa volta ad andarci di mezzo sono 15 studenti iraniani espulsi dal paese per aver violato le regole della quarantena.

La vicenda risale a inizi marzo. In Ungheria non si registrano ancora casi di coronavirus, ma il consigliere della sicurezza nazionale Gyorgy Bakondi annuncia la sospensione a tempo indeterminato del diritto d’asilo nel paese perché, afferma, «osserviamo un certo collegamento tra immigrazione clandestina e coronavirus». In particolare secondo Bakondi il virus potrebbe essere introdotto in Ungheria da immigrati provenienti dall’Iran, uno dei paesi più colpiti dall’epidemia.

Passano tre giorni e vengono riportati ufficialmente i primi casi di coronavirus: si tratta di due studenti iraniani. Successivamente un altro gruppo di studenti iraniani viene ricoverato in ospedale: tutti sospetti Covid. I ragazzi non capiscono cosa stia succedendo, nessuno parla loro in inglese, al momento del ricovero ci sono anche momenti di tensione.

Intanto si mette in moto la macchina propagandistica. L’obiettivo è dipingere l’epidemia come un virus introdotto nel paese dagli stranieri. I media si scatenano al punto da diffondere informazioni sensibili sugli studenti iraniani senza alcun rispetto della loro privacy. I ragazzi vengono poi accusati di aver aggredito il personale sanitario, con tanto di urla e lancio di sedie.

Ma è alla fine della quarantena che inizia il vero incubo. L’ufficio immigrazione convoca prima i due studenti, poi gli altri tredici. Le accuse vanno dall’aggressione alla violazione della quarantena. «Non c’è mai stata alcuna aggressione, è una menzogna. E gli studenti si sono attenuti alle regole prescritte loro dai medici», spiega Zsolt Szekeres, avvocato del Comitato di Helsinki ungherese che assiste una studentessa iraniana di medicina in Ungheria dal 2010, coinvolta nella vicenda.

Eppure il destino dei ragazzi è già segnato. Dopo un rapido interrogatorio, l’ufficio immigrazione notifica loro la revoca del permesso di soggiorno e l’espulsione dall’Ungheria, valida per tre anni in tutto il territorio dell’Ue. «È stato il punto più basso che quell’ufficio abbia mai raggiunto» commenta lapidario il legale della studentessa. «Sono stati sentiti tutti e tredici in un giorno solo. Interrogatori veloci ed estremamente superficiali, tesi non ad accertare la verità, ma solo a dimostrare la loro colpevolezza».

Per Szekeres non ci sono dubbi: questa storia è tutta una montatura costruita ad arte dalle autorità ungheresi che per distrarre l’opinione pubblica e presentarsi ai suoi occhi come coloro che difendono il paese anche durante l’epidemia.

In un primo momento il governo resta disorientato: l’epidemia incrina la narrativa che vuole i migranti come la minaccia alla nazione, il caso degli studenti iraniani è funzionale a correggere il tiro. «La strategia – commenta Szekeres – è la stessa da anni, individuare un nemico e sfruttare la paura per creare consenso».

I ragazzi però non si arrendono, chiedono la sospensione del provvedimento di espulsione e fanno ricorso in tribunale. Inutilmente. Mercoledì sera la corte rigetta in blocco le loro richieste: gli studenti dovranno essere espulsi.

Szekeres però non molla: «Per quanto riguarda il caso che stiamo seguendo abbiamo fatto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo per chiedere una misura provvisoria per fermare la deportazione».

Ieri sera però la doccia fredda: la Corte rigetta la richiesta. Agli studenti non resta che andare via dall’Europa. Quella che avevano scelto per costruire un futuro, la stessa che ora volta loro le spalle.