Se ascoltiamo la nostra voce registrata, normalmente non riusciamo a riconoscerla. Ci sembra che non coincida con la percezione che ne abbiamo mentre parliamo. Proviamo disagio e delusione. Più rari sono i casi in cui la nostra voce ci sembra migliore di quella che sentiamo. In ogni caso, ascoltarci è perturbante. Ciò che è familiare, anzi intimo, come la nostra voce, sembra estraniarsi da noi. Sappiamo che la nostra voce ascoltata ci appartiene, ma non riusciamo o vogliamo credere alle nostre orecchie. Che ancora oggi si possa fare questa esperienza con la voce, nonostante da molto tempo abbiamo moltiplicato i dispositivi di cattura, riproduzione e dislocazione di essa, è una delle ragioni principali dell’interesse e dell’importanza di un libro pubblicato la prima volta più di vent’anni fa, di cui è stata allestita una nuova edizione italiana: Steven Connor, La voce come medium. Storia culturale del ventriloquio (Luca Sossella editore, pp. 499, euro 20, con interventi di Marco Belpoliti, Alberto Abruzzese, Davide Borrelli, Piersandra Di Matteo e un saggio inedito dell’autore ).

IL LIBRO DI CONNOR affronta la questione del ventriloquio, cioè della voce che non riusciamo a capire bene da dove arrivi o di chi sia e che tradizionalmente era collocata non nell’apparato fonatorio, dove è normale aspettarsela, ma nel ventre. Più specificamente la ricerca storica di Connor si concentra sulla voce degli oracoli, delle sibille, dei profeti, dei mistici, degli invasati, degli allucinati, degli attori professionisti che prestano la voce alle marionette. E anche su coloro che si sono prodotti nel tentativo di sfatare il ventriloquio o migliorarne la tecnica, di limitare la voce ispirata della glossolalia, di ricondurre la voce mistica dei profeti a Dio e quella dei posseduti e degli eretici al diavolo. Fino ad arrivare alla modernità con i primi apparecchi ventriloqui, cioè i dispositivi per trasmettere la voce a distanza, per registrarla, riprodurla. Il percorso storico di Connor arriva dunque all’oggi e sembra confermare che il ventriloquio non è soltanto un impiego speciale della voce, ma anche un modo efficace per cercare di capire il mistero della voce stessa.

LA STORIA del ventriloquio mostra che la voce, anche laddove sia palese la sua provenienza, si presenta sempre come una dimensione che continuamente si disarticola da se stessa. Paradosso nel paradosso, se pensiamo che sin dall’antichità la voce umana è stata considerata tale proprio perché articolata. Nonostante anche gli studi fisiologici e le tecniche di misurazione fisica abbiano cercato di risolvere l’enigma, la voce si conferma essere un ibrido di articolazione e disarticolazione, un misto di intimo e estraneo – di perturbante. La stessa ricerca di Connor, anche nelle sue ultime propaggini, sembra rimanere in una posizione stretta tra l’accettazione della voce umana che è tale proprio perché essa è il luogo della scissione e la tentazione di colmare tale scissione fornendone una spiegazione che però non è risolutiva. Tra i diversi tentativi di spiegazione che Connor sviluppa, se ne aggiunga uno ulteriore, filosofico, anche a sprone della sua ricerca. La dinamica perturbante che Connor individua nella voce si riferisce preferibilmente a uno schema in cui l’umano che produce e ascolta la voce è visto prevalentemente sulla base dell’individuo.
E se invece provassimo a considerare l’umano non solo individualmente, ma anche collettivamente? Considerazione che, a dire il vero, Connor evoca, ma non esplicita. E se considerassimo il perturbante della voce non solo come un’emozione legata a una situazione specifica individuale, ma anche come il sintomo di una scena più larga?

NON È FORSE QUESTO, quello che già aveva tentato di fare Aristotele, nel momento in cui aveva considerato anche la voce umana nell’analizzare la natura del politico?
Se provassimo cioè a vedere se tutte le scissioni che disarticolano la voce dalle sue stesse componenti (voce e fiato, voce e suono, voce e immagine che l’accompagna, voce mia e d’altri) non fossero altrettanti modi significativi del riarticolarsi delle voci singole degli individui a una dimensione collettiva, comunitaria, politica appunto?
E se in definitiva il perturbante che proviamo quando ci ascoltiamo non sia anche, se non soprattutto, il rientrare in contatto con questa dimensione sovraindividuale, con quell’«intelletto generale» che non sarebbe fatto solo di pensiero muto e schemi logici – oggi ossessivamente e esclusivamente rivendicati come «scientifici» –, ma che invece avrebbe anche, appunto, una voce, di cui tutte le nostre voci partecipano?