Nino Cartabellotta è il presidente della Fondazione Gimbe, il «Gruppo Italiano per la Medicina Basata sulle Evidenze». Gimbe da anni studia e difende il sistema sanitario universale senza nasconderne le inefficienze in un annuale «Rapporto sulla sostenibilità del Sistema Sanitario Nazionale» zeppo di dati e analisi. Anche la gestione dell’epidemia non sfugge all’esame. Il governo sbandiera il «modello Italia» copiato in tutto il mondo, ma il giudizio di Cartabellotta è più sfumato. «Ovviamente il “Modello Italia” presenta luci e ombre da cui tutti devono imparare».

Quali errori sono stati fatti?

L’errore generale è stato fatto nelle prime settimane: politiche e azioni attendiste inseguivano i numeri del giorno, senza tenere conto che erano il risultato di azioni, interventi e comportamenti attuati/non attuati 2-3 settimane prima. Durante questa fase iniziale hanno giocato a sfavore sia le preoccupazioni per l’economia del Paese, sia gli attriti Governo-Regioni. In altre parole, sono mancati coraggio e determinazione per chiudere tutto e subito. L’errore specifico che abbiamo pagato più caro è la mancata zona rossa ad Alzano Lombardo e Nembro.

Su quali evidenze misuriamo successi e fallimenti dell’approccio italiano?

Il successo delle misure di distanziamento sociale è sotto gli occhi di tutti: la crescita percentuale dei casi si è ridotta dal 14,9% del 19 marzo sino al 4,1% del 30 marzo. Negli ultimi giorni si è stabilizzata con modeste variazioni giornaliere, documentando una fase “altopiano”, piuttosto che un vero “picco”. Purtroppo, l’indicatore più funesto del fallimento sono i decessi: al 4 aprile quelli ufficiali sono 15.362, un numero verosimilmente sottostimato, oltre che influenzato dall’enorme sovraccarico degli ospedali e delle terapie intensive in Lombardia, dove il tasso grezzo di letalità è doppio (17,6%) rispetto a quello delle altre Regioni (8,9%).

Dove ha fallito maggiormente la gestione dell’emergenza?

Il fallimento più clamoroso è stato, e continua ad essere, l’incapacità a proteggere adeguatamente professionisti e operatori sanitari: al 3 aprile i contagiati ufficiali sono 12.052, ed è un’ampia sottostima. Tale incapacità, si è incrociata con i ritardi nell’approvvigionamento dei dispositivi di protezione individuale che non è stato avviato tempestivamente, sfruttando il vantaggio temporale che avevamo sugli altri paesi. Più in generale è mancata la tanto annunciata “catena unica di comando”: le Regioni sono andate, e vanno sempre più, in ordine sparso sugli aspetti relativi alla organizzazione dell’assistenza. Dal numero di tamponi effettuati all’utilizzo di test sierologici non validati; dalle sperimentazioni “selvagge” di farmaci alle modalità di comunicazione dei guariti alla Protezione Civile. Un federalismo dell’emergenza che, a bocce ferme, dovrà essere oggetto di profonda riflessione politica.

“Modello Corea” o “modello Germania”: a chi avremmo dovuto ispirarci?

Le modalità di diffusione del coronavirus sono state differenti nei vari paesi del mondo, così come nelle varie regioni italiane. Non c’è un modello valido per tutti: quello coreano, ad esempio, sarebbe stato impossibile da applicare in Lombardia con i numerosissimi focolai ospedalieri. Ciascun paese, sulla base delle evidenze scientifiche, dovrebbe attuare il “pacchetto” di interventi preventivi, diagnostici e assistenziali anche in relazione alla risposta politica, sanitaria e sociale che è in grado di mettere in campo. Gli strumenti sono uguali per tutti (tracciamento dei casi, quarantena, distanziamento sociale, etc), ma devono essere tempestivi, uniformi e con elevata adesione della popolazione.

Quali lezioni dobbiamo trarne per il futuro della sanità?

Innanzitutto, la politica dovrà finalmente decidere se rilanciare il Servizio Sanitario Nazionale: l’imponente definanziamento della sanità pubblica degli ultimi 10 anni e tutti gli strumenti di privatizzazione occulta (fondi sanitari integrativi, welfare aziendale, accreditamento opportunistico strutture private, etc) hanno lasciato cicatrici molto profonde. In secondo luogo, bisogna prendere atto che la “leale collaborazione” tra Governo e Regioni non funziona affatto e non può configurare la Repubblica a cui è affidata la tutela della nostra salute. Infine, ricordiamoci di tenere sempre aggiornato un piano pandemico nazionale: quello elaborato nel 2003 in occasione dell’influenza aviaria ci avrebbe dato una grossa mano nella gestione della Covid-19. Ma, purtroppo, nessuno si è ricordato della sua esistenza.