Non è un fatto usuale che, nelle consultazioni per un nuovo governo, il Presidente incaricato inviti un gruppo di associazioni ambientaliste (successe solo con Pierluigi Bersani nel 2013) e per di più gli comunichi l’intenzione di creare un ministero per la transizione ecologica.

Tanto meno, qualcuno dirà, se si tratta di un profilo come quello di Mario Draghi. E, invece, proprio nel mondo della grande finanza, che ha anche moltissime responsabilità per la crisi climatica, ci sono settori che hanno guardato con preoccupazione alla crisi climatica, come quello assicurativo e riassicurativo, che sin dai primi anni ’90 sfornava rapporti sui danni crescenti delle catastrofi legate al riscaldamento globale.

Oggi, dopo anni di campagne sul disinvestimento dalle fonti fossili che, anche in Italia, hanno dato risultati incoraggianti (anche se non continui) di disinvestimento dal carbone come nelle scelte di Assicurazioni Generali e, più di recente, di Unicredit, non c’è dubbio che nel mondo finanziario si registri una crescente sensibilità a questi temi anche se molto c’è da fare e non mancano purtroppo segnali di segno contrario.

Nel caso del Presidente Draghi c’è, ovviamente, una dimensione principalmente europea che è in linea col progetto politico di rilanciare la leadership sul clima. E questo è un punto cruciale anche come riferimento al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) che, com’è noto, deve destinare il 37 per cento delle risorse alla lotta alla crisi climatica.

Lo scorso dicembre è stata approvata la revisione degli obiettivi climatici in sede Ue che porta il taglio delle emissioni di CO2 dal 40 al 55 per cento, assorbimenti forestali inclusi. Per Greenpeace e le altre associazioni ambientaliste che fanno parte del Climate Action Network gli obiettivi non sono abbastanza ambiziosi, è comunque un passo nella direzione giusta che richiede uno sforzo maggiore nelle politiche climatiche.

Queste due decisioni – i fondi per il Next Generation Eu di cui il Pnrr fa parte e i nuovi obiettivi europei al 2030 – sono formalmente disgiunte ma politicamente legate: alziamo gli obiettivi anche perché ci sono le risorse.

La bozza del Pnrr invece fa riferimento ancora al vecchio Piano integrato clima ed energia e dunque agli obiettivi già superati. Questo è il primo limite della bozza e rischia di essere cruciale. La modifica degli obiettivi di riduzione delle emissioni ha infatti diverse conseguenze. Nel campo della produzione di elettricità la quota di rinnovabili al 2030 deve salire dal 55 al 70 per cento e questa è una valutazione su cui sia le stime di Greenpeace che quelle dell’industria elettrica concordano. Ma per alzare questa quota le risorse rinnovabili che quantitativamente possono dare un contributo sono il solare e, in parte minore, l’eolico sia a terra che offshore. Per poter gestire questa quota maggiore di elettricità da rinnovabili intermittenti è indispensabile accelerare (e finanziare) gli interventi infrastrutturali nelle reti elettriche.

E, tra questi, servirà anche incrementare gli accumuli che consentano di conservare l’elettricità quando è in eccesso e rilasciarla quando serve. Tra gli accumuli di particolare rilevo quelli elettrochimici – come le batterie al litio – che rappresentano una filiera in comune con le batterie per i veicoli elettrici. Di queste, inspiegabilmente, non c’è traccia nella bozza di Pnrr. E i riferimenti alle rinnovabili sono debolissimi, si cita l’«agrisolare» – impianti solari che convivano con attività agricole – ma con obiettivi minimi mentre hanno un potenziale rilevante.

Così il paradosso italiano – determinato da un lato dal ritardo (voluto) su rinnovabili e sistemi di accumulo e da una pressione a favore del gas fossile dall’altro – è che si spinga sulla costruzione di turbogas, per consentire la stabilità della rete e coprire il fabbisogno nelle ore serali, man mano che si andranno chiudendo le centrali a carbone, invece che promuovere l’aumento delle rinnovabili (che ora dovrebbe essere obbligatorio per i nuovi obiettivi) e degli accumuli per rendere le reti elettriche capaci di gestire questi flussi crescenti di rinnovabili.

È un paradosso: la settimana scorsa in Florida – stato a guida repubblicana – è iniziata la costruzione della più grande batteria al mondo (409 MW) accoppiata a un impianto solare fotovoltaico e altri progetti vanno avanti in California – com’è noto a guida democratica -, in un contesto di mercato in cui il costo del gas è meno della metà che da noi. Investimenti decisi durante l’era di Trump che ha portato gli Usa fuori dall’Accordo di Parigi. Mentre nei nostri piani c’è troppo gas e permane una spinta a rallentarne la graduale fuoriuscita.

Raddrizzare sui nuovi obiettivi europei il Pnrr sarà tra i primi compiti di Mario Draghi. Dovrà farlo non solo perché glielo chiedono gli ambientalisti ma perché le risorse europee devono essere spese in modo efficace per i nuovi obiettivi di lotta alla crisi climatica.

*direttore Greenpeace Italia