Il breve documento che conclude il primo passo della difficilissima trattativa tra la Ue e la Grecia è già oggetto, com’era prevedibile, di una feroce battaglia mediatica. La chiave di lettura di Varoufakis è quella dai toni più realistici e sinceri, all’insegna della trasparenza che ha caratterizzato l’operato della delegazione greca ai tavoli di Bruxelles e che da sola segna una rilevante novità.

«Saremo coautori della nostra lista di riforme – ha dichiarato il ministro delle finanze greco – non seguiremo più un copione datoci da agenzie esterne». Questa in effetti è l’essenza del compromesso raggiunto venerdì.

Il governo di Atene guadagna tempo – il suo primo obiettivo è stato quindi conseguito -; la dead line del 28 febbraio è stata allontanata; ha quattro mesi di ossigeno finanziario per «convincere l’Europa», per dirla con le parole di Tsipras.

Domani, lunedì, la delegazione greca presenterà l’elenco delle riforme sociali e lo scontro si farà di nuovo assai aspro. Solo dopo questa fase si potrà capire chi ha vinto e chi ha perso. Certamente è impossibile che vincano tutti, come, con sprezzo del ridicolo, ha dichiarato il nostro inerte ministro Padoan.

La Germania ha potuto contare del sostegno aperto, in qualche caso più realista del re, di diversi paesi. La Spagna e il Portogallo, preoccupati che una vittoria negoziale della Grecia spiani la strada all’affermazione elettorale delle sinistre nei loro paesi afflitti dalla cura dimagrante impostagli. La corona dei paesi nordici, poiché fanno parte del sistema produttivo allargato tedesco. I paesi dell’ex blocco sovietico, spaventati che le riforme greche – come l’aumento del salario minimo – creino un effetto di traino per analoghe rivendicazioni al loro interno.

Altri, come l’Italia hanno fatto il doppio gioco, mentre la Francia si è mossa troppo tardi lungo una linea timidamente mediatrice.

Tuttavia il fronte pro austerity è tutt’altro che marmoreo. Non solo per le prese di posizione di economisti di fama anche in campo mainstream.

Non solo perché l’Ocse ha diffuso una tabella, poi frettolosamente ritirata, in cui si dimostra che la Grecia ha fatto in sette anni più (contro)riforme di tutti, ottenendo i peggiori risultati.

[do action=”citazione”]L’Ocse ritira una tabella che dimostra che Atene ha seguito le riforme europee meglio di tutti. I risultati sono evidenti. E imbarazzanti per i creditori[/do]

Ma per la crepa apertasi per la prima volta nella Grosse Koalition tedesca. La Spd, incalzata dagli stessi sindacati metalmeccanici e ringalluzzita dall’esito delle elezioni in Amburgo, ha cominciato a prendere qualche distanza almeno da Schäuble.

Ma questo certo non basta. La preoccupazione di un contagio economico-finanziario in caso di uscita della Grecia dall’euro ha lasciato il posto, nella stampa internazionale e nostrana, alla paura più concreta di un’altra contaminazione: quella che deriverebbe dal delinearsi di una concreta alternativa in economia e in politica su scala europea se la linea greca prevalesse.

Fiscal compact e sistema di governance a-democratica europea ne uscirebbero distrutti. Per evitarlo ogni mezzo è lecito. Persino la scelta dell’elettorato greco di permanere nell’euro viene presentata quindi come la principale debolezza negoziale sul tavolo delle trattative, perché spunterebbe una possibile arma di ricatto.

In effetti in questa trattativa non ci sono conigli da estrarre dal cilindro.

La Grecia può vincerla solo se riesce ad allargare il consenso e la coesione interna attorno alla linea del nuovo governo. Quindi mantenere margini, seppure stretti e minacciati, di autonomia decisionale per attuare le misure sociali annunciate.

Solo se si allarga il fronte di solidarietà tra i popoli e i movimenti europei avviatosi in queste settimane, con la convinzione che anche in altri paesi, in primo luogo in Spagna, può cambiare radicalmente il quadro politico e di governo. Un anno decisivo è appena agli inizi.