“Fermare l’altoforno è un atto criminale”. Testo chiaro e sintetico, quello dei volantini che a centinaia passano di mano, durante il blocco pomeridiano dell’unica strada di accesso alla città. A distribuirlo ai passanti e alle auto ferme in coda, compresi i vacanzieri che devono imbarcarsi per l’Elba, sono gli operai delle Acciaierie. Arrabbiati, e controllati da delegati sindacali con l’orecchio al cellulare per avere notizie da palazzo Chigi. Lì dove viene firmato l’accordo di programma che da una parte chiude definitivamente le speranze di un ravvedimento governativo sulla chiusura dell’area a caldo della ex Lucchini. Dall’altra mette sul piatto, come sintetizza il presidente toscano Enrico Rossi, “un impegno effettivo di oltre 250 milioni, di cui 150 della Regione”.

In conferenza stampa il viceministro Claudio De Vincenti offre altri numeri: “Sono 60 milioni per la riconversione del siderurgico, e 10 milioni della Toscana per la bonifica portuale. Poi 150 milioni stanziati nell’accordo di programma dell’agosto scorso. Mentre il governo in questo accordo sta mettendo 50 milioni per le bonifiche, più 20 milioni per la riqualificazione industriale e una cifra da quantificare per il collegamento dalla superstrada al porto. Siamo a 270 milioni”.

Il balletto delle cifre, che a ben vedere comprendono gli investimenti decisi la scorsa estate per il potenziamento dell’area portuale, è l’ennesima nota paradossale di una storia impossibile, e tutta italiana. “Purtroppo non esiste accordo di programma che possa restituire l’alta qualità dell’acciaio prodotto con gli altoforni – osserva a distanza Rocco Palombella della Uilm – ora la produzione dell’acciaio a colata in Italia rischia di interrompersi. Rimarrebbe solo quello prodotto nel sito di Taranto, con tutti i problemi che la realtà siderurgica pugliese sta tuttora vivendo”. Problemi che hanno convinto l’Unione europea a estrarre due cartellini gialli in pochi mesi, per ben noti motivi. Contestati dallo stesso governo che invece chiude, almeno per quattro anni, la siderurgia piombinese.

Non c’è Matteo Renzi a spiegare il perché di questa scelta. Con De Vincenti e Rossi c’è invece il ministro dell’ambiente Gianluca Galletti, che assicura i suoi 50 milioni e bonifiche in tempi brevi. Non conoscendo, evidentemente, quanti soldi (circa un miliardo, per gli esperti) e quanto tempo ci vorrebbe per ripulire la gigantesca cittadella dell’acciaio dalla scorie di oltre un secolo di attività. Residui anche pericolosi, segnalati da un’indagine della Guardia di finanza. C’è anche la titolare della difesa Roberta Pinotti, che certifica la nuova mission industriale di Piombino: “Abbiamo 38 nostri scafi da dismettere, e dal primo gennaio prossimo l’Ue impone che le navi europee siano smantellate in Europa”. Un “lavoro in prospettiva”, spiegano a palazzo Chigi. Dove però non viene fatto cenno sull’affare, più immediato e più remunerativo, della Costa Concordia.

Sul capitolo lavoro, il più onesto è il presidente toscano. “L’accordo prevede i contratti di solidarietà per gran parte dei lavoratori – spiega Enrico Rossi – che accettano di guadagnare meno pur lavorando allo smantellamento dell’area a caldo e alle bonifiche. Un’altra parte avrà la cassa integrazione, perché per alcune fabbriche dell’indotto non sarà possibile la solidarietà e avranno la cassa ordinaria. Per le imprese più piccole addirittura la cassa in deroga, e per queste bisogna accelerare al massimo i tempi”. Quanto al futuro siderurgico, prosegue Rossi, ci vorrà del tempo: “L’accordo serve a rilanciare la speranza e dare la prospettiva di sostituire l’area a caldo con una tecnologia più avanzata”. Un impianto Corex, con tempi stimati in tre anni almeno, e un forno elettrico, per il quale potrebbero bastare 18-24 mesi. Ma solo se i futuri acquirenti, gli indiani di Jindal o gli ucraini di Steelmont sono al momento i soli interessati, decideranno di investire sulla produzione e non solo sui treni di laminazione. Tanti interrogativi, nel giorno in cui l’altoforno rallenta il suo battito e nessuno, in cuor suo, ne capisce il perché.