I cinguettii di Renzi e i rumors di palazzo Chigi, in vista del consiglio dei ministri di domani, annunciano 10 miliardi di euro di tagli alle tasse. Ma quali? L’intervento è sull’Irpef. I lavoratori avranno un beneficio tra i 70 e i 100 euro mensili, dicono i fans del nuovo premier. Ma dal ministero dell’Economia arriva una gelata.

Se taglio ci sarà, dice il ministro Padoan, andrà sull’Irap, quindi a beneficio delle imprese, per ridurre quel costo del lavoro che in realtà è uno dei più bassi nel contesto europeo, mentre tra i più elevati è il prelievo fiscale e contributivo sul lavoro dipendente. Come andrà a finire lo sapremo tra poco. Ma intanto è importante chiedersi le ragioni di questo contrasto. In sé non nuovo, visto che non è la prima volta che un ministro dell’Economia, specialmente se fortemente legato ai poteri forti internazionali, ha smentito la captatio benevolentiae di un presidente del consiglio.

Ciò che muove la scelta di Padoan è abbastanza evidente. Da un lato sta il giudizio negativo espresso dalla Commissione europea, che parla, nel caso italiano, oltre che di un elevato debito, di squilibri eccessivi derivanti da una «competitività esterna molto debole». Il ministro Padoan ha replicato sostenendo che le industrie manifatturiere del nostro paese hanno già compresso i costi di produzione, tra cui le retribuzioni, migliorando sensibilmente la bilancia commerciale. Ma questo non basta, perché l’esportazione non ha salvato l’Italia da un continuo declino industriale e occupazionale.

Da qui il ministro trae la conclusione che è assolutamente prioritario utilizzare i 10 miliardi promessi per la riduzione dell’Irap, in modo da abbattere il costo del lavoro a favore dell’intero mondo delle imprese. Non fa niente se questo comporta una riduzione al finanziamento della sanità. Ce lo chiede l’Europa.

Dall’altro lato viene in soccorso alle tesi di Padoan l’immancabile studio della Confindustria, per la verità un po’ vecchiotto (marzo 2008), secondo cui una riduzione del cuneo di 9 miliardi, questa la cifra ipotizzata allora, avrebbe effetti taumaturgici sulla crescita, esattamente il doppio di quello che si otterrebbe diminuendo l’Irpef per i lavoratori. Naturalmente lo studio della Confindustria si disinteressa del tutto della scelta produttiva delle imprese, di indirizzarle cioè verso settori innovativi e verso quelli con maggiori potenzialità occupazionali.

Come finirà la contesa? Stando all’insieme dei commenti, al combinato disposto delle vanterie renziane e delle prudenze padoaniane, probabilmente si andrà ad una soluzione tipicamente italiana, cioè compromissoria. Una parte dei 10 miliardi, la maggiore, andrà alle imprese, una parte minore a rimpinguare le esauste tasche dei lavoratori. Ma se così fosse l’effetto sarebbe peggio che nullo.

Se si vuole un intervento shock sull’economia non vi è altra strada che l’aumento della domanda, quindi bisogna diminuire la pressione fiscale sul lavoro. Anzi riformarla radicalmente. Ma come i 18 euro già dati da Letta, gli eventuali 50 euro al mese che venissero ai lavoratori dal risparmio Irpef, in virtù di una soluzione spartitoria dei 10 miliardi, farebbero solo il solletico, senza peraltro risolvere alcun problema anche dal punto di vista delle imprese stesse. Sia perché i soldi in tasca sarebbero troppo pochi per incrementare sensibilmente i consumi, sia perché le famiglie penserebbero piuttosto ad accantonare temendo nuove stangate future.

La prova l’abbiamo già avuta: la famosa riduzione di cinque punti del cuneo fiscale, pari a 7,5 miliardi, fatta dal secondo governo Prodi e avversata solo dalla sinistra radicale, ma con poca voce. Il 60% andò alle imprese, il 40% venne usato per ridurre l’Irpef per tutti i contribuenti. Il risultato fu che i lavoratori manco se ne accorsero una volta ritirata la busta paga. E fu l’inizio della fine di un governo già nato fragile.