Renzi non vuole la fiducia. La tiene in tasca, come arma di riserva, ma preferirebbe di gran lunga evitarla. Per quasi tutti i poteri che contano in Europa e per una parte dell’elettorato umiliare i sindacati andrebbe a tutto suo merito. Ma un’altra componente dell’elettorato Pd potrebbe invece non perdonargliela. Un accordo per finta, ottenuto concedendo briciole a chi non vede l’ora di avere un appiglio per ingranare la retromarcia, sarebbe di gran lunga l’esito più auspicato.

Al momento Renzi finge di aver già vinto, tattica classica e ben rodata per ipotecare la vittoria reale: «C’è stata una discussione seria. Il partito si è espresso e ormai è questione di giorni». La minoranza, insomma, si adeguerà. Tanto più che è frammentata e confusa, vicina allo sbando. Solo che non è così, o almeno non ancora. Una parte dei ribelli è già stata recuperata, si sa che nel Pd il cuor di leone non abbonda, ma una parte ancora punta i piedi e a tutt’oggi i numeri per approvare la legge sul lavoro senza l’apporto determinante di Forza Italia non ci sono. Per questo Renzi il duro evoca la sua esile parte mediatrice e butta lì che «ora si tratta di definire il documento nelle sue varie fattispecie». Cioè di adoperarsi per mettere a punto quei particolari che da sempre sono il vero terreno di mediazione.

In sé non sarebbe una missione impossibile, non con un’opposizione interna sconfitta e spaurita. Il problema sono le altre forze di governo, quelle ufficiali come l’Ncd e quella ufficiosa tinta d’azzurro. Per motivi uguali e opposti a quelli di Renzi, sia il partitino di Alfano che quello di Berlusconi hanno bisogno di dimostrare plasticamente che il governo ha seguito le loro indicazioni e operato con massima brutalità per piegare sindacati e sinistra Pd. Quindi si mettono di traverso. «Il rischio – dichiara per Fi Brunetta – è un grande imbroglio. Da quello che è uscito ieri dalla Direzione Pd non si capisce bene, però il rischio che tutto rimanga come prima c’è». E’ l’umore generale del partito azzurro. Dietro l’affondo non c’è solo la necessità di sgomberare il campo dalle accuse di aver reso Forza Italia un partito subordinato a palazzo Chigi, c’è anche l’esigenza di tenere testa a un’opposizione che coglierebbe certamente l’occasione per accusare Silvio l’eterno capo di svendere i contenuti del centrodestra per omaggiare il Nazareno.

Ma stavolta il problema più serio non è costituito da Silvio il socio occulto bensì dagli alleati conclamati dell’Ncd. Con la maggioranza compatta si può andare avanti anche senza Fi. Senza l’Ncd invece no. Quelli sono voti determinanti al Senato. Oltretutto Maurizio Sacconi, che in materia è un super falco, è pure relatore della legge e ha tutte le intenzioni di sfruttare al massimo la posizione. «Tutte le modifiche al jobs act – dichiara infatti – vanno concordate». L’emendamento annunciato dal capogruppo Pd Zanda, quello che dovrebbe tradurre in norma di legge il confuso esito delle assise Pd, «non potrà essere la mera traduzione dell’ordine del giorno del Pd, perché tutte le modifiche devono essere concordate col relatore, che sono io e che ho le mie opinioni». Per chiarire meglio, aggiunge che «il diavolo è nei dettagli». Zanda replica ricordandogli che il relatore, in realtà, «rappresenta la commissione Lavoro e deve tenerne conto», ma la schermaglia è eloquente. Indica che la coperta è corta: se Renzi fa anche solo mezzo passo verso la minoranza del suo partito rischia di perdersi l’ala destra della maggioranza, in caso contrario la minaccia che i voti azzurri si rivelino necessari diventa realistica perché senza qualche concessione, anche solo apparente, una parte dei senatori ribelli del Pd dovrà per forza tenere duro.

Salvo miracoli di equilibrismo, quindi, alla fiducia Renzi dovrà alla fine ricorrere. A meno che non scelga di rovesciare il tavolo, e far passare il jobs act con i voti di Fi. A quel punto Napolitano non gli permetterebbe comunque di dimettersi prima dell’approvazione della legge di stabilità. Al premier resterebbero così tre mesi per ricondurre una volta per tutte all’ordine il Senato con la mannaia delle elezioni a un passo, oppure per liquidare definitivamente la faccenda nelle urne.