Nella quiete apparente dell’Epifania le manovre sul doppio pacchetto Quirinale-palazzo Chigi non conoscono sosta. Tra i più attivi si segnalano Matteo Renzi e Giancarlo Giorgetti, i cui disegni paiono in parte coincidere. Se il rottamatore pare essersi convinto della ineluttabilità della salita al Colle di Mario Draghi, e sta cercando di farsi king maker del nuovo premier, Giorgetti è da tempo in prima linea tra i sostenitori del trasloco dell’ex numero uno della Bce. A questo si aggiunge la situazione dentro la maggioranza, sempre più turbolenta. Tale da aver fatto sussurrare al prudente ministro leghista che «la stagione del governo Draghi è finita, è inutile girarci intorno».

L’idea del ministro dello Sviluppo è stringere un accordo larghissimo per mandare Draghi al Colle, che comprenda anche una separazione consensuale: la Lega se ne andrebbe all’opposizione di un nuovo governo, che non sarebbe fotocopia di quello attuale, ma più ristretto.

IN QUESTE ORE NEI PALAZZI si parla con insistenza di una maggioranza che comprenda Pd, M5S, Italia Viva e i centristi di Toti, con una variabile imponderabile legata a Forza Italia. Queste forze darebbero vita a un governo politico di fine legislatura, con Meloni e Salvini all’opposizione e un punto interrogativo legato a Forza Italia, i cui numeri non sarebbero comunque indispensabili. Il nome più gettonato per guidare questa nuova maggioranza (simile a quella del Conte 2 e solo leggermente allargata) è quello di Dario Franceschini, ministro della Cultura.

FANTAPOLITICA? Premesso che in queste settimane prima del via alle votazioni per il Quirinale il 24 gennaio di ipotesi ne gireranno molte, questa ha il pregio di togliere dal tavolo le elezioni anticipate, che nessuno vuole a parte Meloni. E di avere, almeno sulla carta, più chance di tenuta rispetto a un esecutivo «fotocopia» guidato da un tecnico meno forte di Draghi, come gli attuali ministri Marta Cartabia e Daniele Franco. Già, perché tra i parlamentari l’idea di un “governo Draghi senza Draghi” non trova molti consensi: «Già fatica lui a tenere insieme la baracca, come abbiamo visto sui vaccini, figuriamoci un altro», è il ragionamento che circola.

Renzi sta certamente lavorando a un governo politico a guida Franceschini, con due obiettivi: dimostrare che è ancora in grado di influenzare le scelte dentro il Pd e indebolire Enrico Letta. Anche il leader dem, dal suo canto, concorda sull’idea di favorire la salita di Draghi costruendo le condizioni perché la legislatura arrivi al 2023, ma vorrebbe tenere in piedi la maggioranza di larghe intese. «Con l’obbligo vaccinale da far rispettare e il Pnrr da attuare serve un governo forte e non di parte: l’emergenza Covid è tutt’altro che finita», spiega un parlamentare molto vicino a Letta.

Certo, di fronte a un’ipotesi che garantisca la rapida salita di Draghi al Colle (segnale di stabilità molto atteso dai partner internazionali) senza mettere a repentaglio la durata della legislatura, difficilmente i vertici del Pd potrebbero mettersi di traverso.

E I 5 STELLE? Chi conosce l’attuale stato della truppa parlamentare giura che di fronte a una riedizione della maggioranza giallorossa (con qualche centrista in soccorso) difficilmente il corpaccione grillino potrebbe opporsi. Soprattutto se in quell’esecutivo mantenessero un ruolo di peso i ministri attuali, a partire da Luigi Di Maio che potrebbe tornare vicepremier, come ai tempi del governo gialloverde. E Conte? Per lui sarebbe certamente uno smacco. Ma questo non gli impedirebbe di restare alla guida del Movimento e di conservare il ruolo chiave di chi compilerà le liste per le prossime politiche.

PER ORA SI TRATTA di un lavoro sottotraccia, trasversale, che tocca oltre a Renzi e Giorgetti anche pezzi di Pd e M5S. La vera alternativa a questo scenario è l’elezione al Colle di Giuliano Amato, che potrebbe prendere molti più voti di quelli che vengono dichiarati apertamente, anche in casa M5S e nella Lega. In quel caso a palazzo Chigi rimarrebbe Mario Draghi, per la gioia di tutti i parlamentari che temono le elezioni anticipate. Già, perché “l’operazione Franceschini” è certamente un piano ben articolato, ma la sua riuscita resta appesa a un filo. Basta una mezza mossa sbagliata che viene giù tutto e, salito Draghi al Colle, si torni dritti alle urne.